Giandomenico Romanelli
Safet Zec. Il demone della pittura
dal catalogo della mostra (edizioni Skira, Milano 2010)
Safet Zec è uomo di poche parole. Egli appare spesso assorto in una silenziosa meditazione sulle cose e gli eventi; ovvero come restio a pronunciarsi, incerto a intervenire su realtà che potrebbero risultare effimere o marginali, inessenziali. Per contro, la sua pittura fluisce con l’incontenibilità di un fiume in piena, possente e composita, lirica o tragica, dolente o gioiosa. Perché è proprio questa l’impressione che si prova nell’accostarsi alla sua opera: l’impeto tumultuoso di una scrittura solida, epica e classica, profonda e onirica. Zec mostra la sicurezza linguistica degli antichi maestri e, insieme, l’ansia di ricerca di un indagatore solitario, la frenesia dello sperimentatore. La quantità (e la qualità!) della sua produzione finita e non-finita, abbozzata, in-finitamente testardamente o disperatamente rielaborata, è sorprendente; ma la trasparenza è cristallina, il controllo totale, singolarmente lucido e razionale. Ora, non c’è dubbio che questo bosniaco ruvido e dolce ad un tempo non sia un più che originale protagonista di una inedita scrittura magistrale, un solitario che ha anticipato l’inevitabile ritrovamento di una lingua, di strutture sintattiche, di parole ancorate a inconsumabili valori; ma non vi è, altrettanto certamente, il benché minimo dubbio che egli sia un interprete di angosce e percorsi tradotti in forme complesse e in partiture sinfoniche, paesaggi dell’anima e poemi lirici che anche altri rabdomanti per altre strade e altre brucianti metafore e non meno necessarie sintesi e sacrifici sublimi hanno intuito e preconizzato, hanno additato e illuminato: artisti, critici d’arte, maitres à penser e severi fustigatori di ogni superficialità.
In Zec non ci sono segreti né espedienti, non misteri né arcani saperi che non siano sotto i nostri occhi, sotto lo sguardo di tutti: l’evidenza di un bisogno straripante e radicato, di un démone, di una manìa possente e invadente che ha la totalità necessaria e insopprimibile di una vocazione sacerdotale e la inestinguibilità zampillante di un fuoco divino. Ma non sarebbe veridica un’immagine di Zec come di un anacoreta alchemico e sublime: Zec è invece un sorprendente artigiano del colore e delle forme, innamorato della materia; delle materie che mescola e trasforma –questo sì, senza essere un alchimista- in figure e immagini, in ambienti e cose, in grumi colorati da cui escono quegli impasti di sagome, quegli scheletri esatti e inquietanti di porte, di mobili e sedie, quei panni animati, quei letti sfatti ricchi di tutti i bianchi ascetici e policromi che la luce sa evocare tra ricordi di tragedie e frammenti di vite vissute, tra addii e abbandoni, incontri e agnizioni.
Zec nasce come paesaggista sognante, enigmatico e sconfinato; poi trova la dimensione chiusa e quasi monacale dello studiolo, dell’atelier, ed è là che gli strumenti del suo operare e creare diventano i protagonisti di una rappresentazione asciutta e insieme ridondante, la carta geografica di percorsi mentali, di associazioni d’idee, rimandi, citazioni e rinvii, di contrapposizioni e accostamenti che passano attraverso la essenzializzazione di sagome e ombre; ovvero nella apparentemente caotica mise en scène di una sofferta analisi e auto-analisi di un processo creativo teso e assolutamente personale, perché è il processo secondo il quale egli assembla e divide, cataloga e rimescola, attribuisce toni, proporzioni, profili, volumi: insomma mette in forma un mondo, il suo mondo, scomposto o ri-composto, smontato, destrutturato o ri-montato a seconda dei differenti momenti della traduzione in forme e colori vivi e palpitanti del suo equilibrato universo poetico.
Si è parlato di processo creativo, e non per caso. L’atelier di Zec è l’immagine fedele di un metodo, di un procedimento, di una dinamica e di un progetto; è il contenitore perfetto o, se si vuole, la forma esatta, la matrice e lo stampo di una avventura artistica e intellettuale che si va a depositare tra tele e carte, cavalletti e tavoli da lavoro, abbozzi e album, disegni e lastre metalliche, incisioni, fotografie, acidi e cere.
Altri sentimenti e passioni, altri momenti sospesi si sono ambientati tra questi oggetti e segni, tra i pennelli e le matite: è la storia personale e collettiva di Zec e del suo mondo, della sua terra e dei suoi valori; la tragedia di un popolo e delle sue molteplici e aggrovigliate radici: insomma di un’idea di convivenze, esperienze e amicizie comuni e pacifiche, di etnie plurime e pur solidali, di percorsi arcadici in paesaggi grondanti civiltà e cultura, in medioevi poetici, in altrovi sognati intatti e fiabeschi.
Zec, che pure è un artista internazionale, ritorna spesso a questo mondo, con trepidante e amorosa sollecitudine, con un’inquietudine sottile ben consapevole della orrenda insanabile ferita che ha segnato quell’universo. Perché l’arte di Safet Zec è profondamente etica e profetica; perché è assolutamente laica e pur intensamente religiosa: pochi pani della pittura contemporanea hanno la sacralità di quelli che egli ritrae con rispetto delicato e consapevole sopra un canovaccio bianco, su una sedia di paglia, su una madia consumata dall’uso: prima di essere spezzati ad Emmaus, portati dai corvi per Elia nel deserto, premurosamente deposti dagli angeli su pietre roventi per gli anacoreti della Tebaide; baciati nella tradizione contadina se inavvertitamente caduti a terra.
Ed è poi, quella di Zec, una poetica dolente dell’abbandono. Quanti abiti appesi a un armadio, lasciati su una sedia, stropicciati su un letto; quanti appassionati abbracci di soprabiti e impermeabili riempiti nient’altro che di vento o di anime invisibili; quanti oggetti dimenticati: scarpe panni colori pennelli ceste secchi sedie taglieri forme di pane corde camicie scialli, uno specchio. Trame viventi di un immaginario concreto e solido; racconti di una disperazione segreta; vuoti da cui emergono e in cui si muovono silenziosamente braccia e gambe, mani, spalle, crani; metafisica del dolore e teatro dell’emozione senza respiro, improvvise sparizioni e repentini turbamenti, apparizioni, manifestazioni di vita e, magari, di gioia.
Anche le barche di Zec paiono racchiudere nella semplicità delle loro sagome arcaiche, negli stracci e nei teli che le coprono e le proteggono ancora un ricordo di antichi mestieri; nulla di nostalgico, nulla di localistico, nessuna traccia di venezianità in questi piccoli battelli da pesca, in queste sagome elementari, levigate, consunte, sbrecciate, degne di una giornata di pesca sul lago di Tiberiade o minuscolo teatro della sfiancata, epica e finale battaglia tra il vecchio e il mare.
L’approdo più recente di Safet sono i grandi bianchi addirittura monumentali, così solcati di ombre, impronte di sagome già scomparse, sindoni di un’umanità dissolta, orme di corpi e memorie di anime e di storie. Così possenti da imbrigliare ogni tentativo di fuga, e così delicati da conservare anche la minima traccia di ogni parola sussurrata; plastici come statue di marmo e leggeri come farfalle, essi certamente racchiudono e manifestano la tensione di Zec a fare della sua pittura un linguaggio totale, un grande teatro di rappresentazioni sacre e profane, una ininterrotta deposizione in cui mille volte un Cristo dopo aver suggellato il proprio tragico transito sepolcrale abbandona in un angolo bende e sudari abbacinanti di una luce sovrumana perché essi siano testimonianza e prova, riflessi di divino nell’atelier di un artista silenzioso.
La pittura di Zec è densa e piena come negli artisti rinascimentali, corposa; il segno è largo, sicuro nel ductus, ricco di plasticità, grondante di materia; si sovrappone per velature, si spacca in colpi di luce, avvolge le forme, le definisce nel minimo dettaglio ma non è mai miniaturistico: occorre arretrare, distanziarsi dall’opera, farla respirare in spazi vasti e allora tutto si compone, dal pulsare della vena sul dorso di una mano al disfarsi di una treccia di paglia su una seduta, un frammento di spago a una finestra, una scheggia di vetro, l’intera facciata di una casa, una barca, una parete, un cappello, un tubetto di colore.
Ha ritratto immense masse d’alberi, montagne intere; un vecchio catino sfondato; una cesta di cipolle; la disperazione stupefatta di una artista mancato; un enorme cumulo di sedie; un foglio di carta. Costruisce i suoi sfondi come collages in trompe l’oeil, ma poi li ricopre di una liquidità bruna come di pais, di anilina, di un qualche vecchio mordente, di tempere sporche, di miscele semi-trasparenti di colle e acqua. Su questa preparazione egli viene poi a tracciare i primi segni di una costruzione che si presenta subito con l’impianto complesso di una ‘composizione’, di una pala, di un affresco, di un murale. Egli parte e può partire da qualsiasi stimolo e qualsivoglia suggestione: preferibilmente da una fotografia (che egli utilizza con grande libertà e grande sapienza), da una lama di luce su un piatto, dai resti di una colazione, da un mobile abbandonato, da una sedia sfondata, da una barca che si tiene faticosamente a galla, dal dettaglio di una pittura, da uno spigolo di pietra. E’ il respiro di Zec, la sua dimensione epica, la certezza di una solidità non effimera, la sua rocciosa fiducia morale, la confidenza nella pittura, la trasparenza legittima verso ambizioni classiche.
Si sarebbe tentati di far dei nomi, di trovare delle ascendenze (quelle che vengono in mente a chiunque: da Tintoretto a Palma il Giovane, da Zurbaran a Theotocopoulos, da Caravaggio in avanti fino a Freud e oltre). Forse si tratterebbe di abbagli o, forse, di suggestioni legittime; di fantasmi evocati a supportare i confronti partendo dai soggetti ovvero dalla sicurezza del tratto o dall’innegabile virtuosismo prospettico e compositivo. E’ come dire che egli sa guardare e sa riflettere, che si è impossessato della storia e delle tecniche, che seleziona i suoi stimoli visivi, che ha frequentato con profitto le accademie.
Ma tutto questo –pur vero- non basta certo a ‘spiegare’ Zec, a collocarlo in quella posizione e in quel livello cui lo hanno condotto la sua mano e il suo occhio; il suo pensiero e il suo impegno, la sua passione, infine. Quella corrente misteriosa e sublime che conduce la mano e la testa degli artisti, di alcuni di essi baciati dalla sorte e segnati dal destino, trasformandoli in messaggeri e testimoni.