Nella straordinaria cornice neoclassica dell’Ala Napoleonica del Museo, accanto alla collezione canoviana sono esposte le oltre cinquanta opere di Arnulf Rainer. L’allestimento consente così un emozionante raffronto e dialogo tra gli autori, e una singolare esperienza di stratificazione di diverse forme espressive, dalla scultura, alla fotografia, al segno pittorico. Il profondo rapporto che lega l’artista austriaco all’opera di Canova risulta chiaro e meglio comprensibile leggendo alcuni brani (raccolti con la serie completa delle immagini nel prezioso catalogo edito da Mazzotta) dello stesso Rainer: “Quando, a decenni di distanza, dedicai di nuovo la mia attenzione ad Antonio Canova, l’idolo della mia giovinezza, le sue donne presero a piacermi d’improvviso in modo particolare. Ma avvenne anche l’inverso. Mi facevano dei cenni, mi ammiccavano con gli occhi, mi parlavano e mi mostravano gioiose il loro corpo perfetto. Conoscevano la mia opera, soprattutto i sovradisegni che negli ultimi anni avevo fatto su dipinti di Caspar David Friedrich. Entrammo sempre più in confidenza. Mi sussurravano di voler essere avvolte, velate al modo dei paesaggi di Friedrich che avevo soffuso dei miei obnubilamenti. Dicevano di morire di freddo e di essere eccessivamente esposte agli sguardi. A tutto questo accennavano con grazia, apparendomi di quando in quando in nuvole colorate. Fossero coperte per lo meno a metà, dicevano, non avrebbero più provato vergogna davanti a chi le rimirava, e avrebbero evitato il congelamento nelle fredde sale dei musei. Niente infatti è più penoso, a loro avviso, che starsene centocinquant’anni svestite in quella levigatezza marmorea. Intendevano essere delicatamente coperte da mani di pittore – matita o pennello. Volevano portare colori trasparenti, come spesso avevano visto sui miei fogli. E, inoltre, anziché nell’aspra luce del sole meridionale, risplendere al chiaro di luna… Canova… Era costretto a creare facendo per mesi gessi preparatori, scolpendo e levigando prima queste creature in grande formato, con le quali poi poteva entrare in contatto nell’intimità del formato del foglio da disegno. Nelle loro vibrazioni io potevo entrare senza la pregressa fatica dello scolpire, come se esse fossero appena arrivate nel mio atelier da un’altra terra. Si mormora peraltro che Canova per ogni figura avesse un’officina propria, spesso nascosta, dove gli assistenti facevano il grosso dei lavori preparatori, e poi egli stesso, con tocchi leggeri, eseguiva il lavoro di finitura, allorché li visitava una volta alla settimana. Suoi naturalmente erano ogni volta i progetti. Lo sguardo fisso all’antichità, egli creava le sue donne, che ora diventavano le mie…”