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1. Com’è articolata la mostra?
La mostra è articolata in diverse sezioni: si è deciso di distinguere l’attività di Francesco Guardi “figurista” da quella di paesaggista, di pittore di capricci o di altri soggetti, dal momento che Francesco non appartiene al gruppo di artisti che decidono fin da subito la propria carriera, come accade per Tiepolo, ad esempio, quanto piuttosto è un pittore che si presta alla realizzazione di qualsiasi tipo di contenuto; quindi, anche per semplificare l’esperienza della visita, abbiamo mantenuto divise le varie sezioni. La prima parte sarà dedicata a Francesco Guardi “pittore di figura”, poi ci saranno le prime vedute, poi i capricci, infine la fase finale con le splendide vedute veneziane degli ultimi anni.
Ognuno dei quadri esposti ha le proprie specifiche ragioni di essere, la scelta delle opere è stata fatta bene grazie al fatto che mostre di Guardi, negli anni recenti, non ne sono state fatte, quindi abbiamo avuto un’ottima accoglienza da parte dei prestatori. Ciò ci ha consentito di ricevere da essi dipinti molto importanti.
2. Il fatto che la mostra segua un ordine tematico piuttosto che cronologico forse non è dovuto anche alla difficoltà nella datazione delle opere di Guardi?
Certo, esiste in effetti questa difficoltà, ed è uno dei problemi che ci siamo trovati ad affrontare. Le sezioni della mostra non sono fini a se stesse, ma collegate l’una all’altra. Si sa che Francesco comincia a dipingere vedute più o meno intorno alla metà degli anni ‘50. Prima, in sintesi lavora esclusivamente come figurista. Ciò spiega come la prima sezione sia dedicata appunto alle pitture di figura, la cui attribuzione a Francesco piuttosto che ad Antonio o addirittura a Niccolò è stata oggetto di una querelle molto accesa. Seguono le vedute: va da sé che Francesco continua a produrre pitture di figura dopo la morte del fratello Antonio, nel 1760: in quell’anno ne eredita la bottega, assieme a qualche committenza, primi fra tutti i Giovanelli. Questi ultimi erano stati già i committenti di suo padre Domenico e di Antonio, divenendo infine i suoi stessi committenti principali. Per quanto riguarda la pittura di figura, la sezione inizia con le vedute di Venezia, appartenenti al 1755 o ’56: da qui abbiamo cercato di dare risposta all’annoso problema riguardante l’effettiva difficoltà di dar loro una datazione precisa, in mancanza di documenti diretti sui fratelli Guardi, come pure di elementi interni ai dipinti che possano garantire quanto meno un utile post quem alla data della loro esecuzione.
3. Vi sono opere particolarmente indicative dal punto vista della datazione, grazie a un riferimento preciso riportato nel dipinto, oppure alla possibilità di ricavarvi un post quem o un ante quem che possano essere significativi?
Ne cito una per tutte: il Miracolo di San Gonzalo da Marante che del Kunsthistorisches Museum di Vienna. È uno dei due quadri che Francesco stesso, e non Antonio, dipinse indubbiamente per la cappella di una chiesa veneziana, poiché, infatti, la sua esecuzione risale al 1763. La seconda delle due tele è andata persa, ma quella oggi a Vienna costituisce l’elemento cardine per ristabilire la differenza tra Antonio e Francesco. Alla fin fine, per sintetizzare, Antonio è l’ultimo grande esponente del rococò veneziano, Francesco è completamente diverso, è un pittore che ha evidentemente molte fonti alle quali attingere. In primis, la pittura altoatesina e della zona di Vienna, dove Francesco, ed è opinione condivisa da molti, ha vissuto per alcuni anni. È, in ogni caso, un pittore abbastanza particolare: non è un gran maestro di invenzione, le sue tele di figura, com’era d’altronde in realtà tradizione di famiglia, derivano da cose altrui, rielaborate in base alla propria sensibilità e capacità pittorica.
4. Quali sono, in sintesi, le tappe più significative della vicenda critica di Guardi?
La vicenda è molto difficile da riassumere in breve, poiché ha occupato almeno cinquant’anni degli studi di storia dell’arte veneziana. In un primo periodo, nell’ ‘800, entrambi, sia Antonio che Francesco, vennero quasi completamente ignorati. Francesco venne scoperto all’inizio del ‘900 da Simonson, uno studioso inglese che girò per le valli del Trentino, per le Venezie, per l’Italia, alla ricerca di documenti, avendo tra l’altro la fortuna di incontrare i discendenti diretti di Antonio e Francesco.
Curiosamente, gli eredi diedero alcune informazioni su Francesco, ma non nominarono neppure Antonio, quasi fosse scomparso o fosse stato sottoposto a una qualche forma di damnatio memoriae. Francesco divenne quindi potremmo dire il pittore più importante della seconda metà del ‘700, venendo apprezzato tantissimo per questa sua apparente sintonia stilistica col mondo degli impressionisti, che all’epoca erano al vertice della fama, anche per il pubblico italiano.
Successivamente, venne riportata alla luce anche la figura di Antonio Guardi; lo scoprì Fogolari per caso, studiando le carte dell’archivio dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, e lo iniziò a conoscere ancor più approfonditamente quando gli capitò, andando al seguito delle truppe italiane che conquistarono il Friuli, nel 1911, di arrivare in villa Mocenigo a San Michele al Tagliamento presso Latisana, e imbattersi in una pala firmata “Guardi”, di non eccelsa qualità, ma che era stata da lui immediatamente associata ai dipinti della chiesa veneziana dell’Angelo Raffaele: i sette dipinti che stanno sulla cantoria dell’organo sono stati per l’appunto l’elemento su cui si sono scontrati accademici e conoscitori per più di cinquant’anni, e costituiscono il nocciolo quindi della nostra questione.
Sono attribuibili ad Antonio o a Francesco? Oppure sono di collaborazione tra i due? Su tale questione hanno dibattuto in molti e lungamente. Fiocco e Pallucchini, primi fra tutti, hanno tenacemente sostenuto l’autografia fransceschiana di questi paesaggi; molti altri invece, a partire da Arslan per poi passare attraverso Maffei, Pignatti, Valcanover, e naturalmente poi Zampetti, sono stai convinti assertori della paternità antoniana.
Si è giunti persino a delle posizioni eccessive, ad esempio, nel pensare che Antonio fosse il capo bottega e vi applicasse la logica del “maso chiuso”, una realtà nella quale fosse lui a comandare e gli altri si riducessero a meri esecutori; oppure, che questi pittori lavorassero in collaborazione, con Francesco responsabile delle parti migliori di un dipinto, mentre Antonio artefice dei pezzi più brutti: insomma, una serie di situazioni abbastanza forzate, che forse non avevano già allora una ragione di esistere. Oramai siamo tutti convinti che la grande pittura rococò, ossia quella, splendida, delle tele nella cantoria della chiesa dedicata all’Angelo Raffaele, sia di Antonio, mentre la pittura di figure più cupe dal punto di vista coloristico e più disegnate, più seicentesche mi verrebbe quasi da dire, sia invece di Francesco. Su tutto questo ha portato una parola, direi decisiva, la mostra organizzata a Palazzo Grassi da Pietro Zampetti nel 1965, quando si poterono mettere a confronto quasi metà delle cose conosciute di Francesco e di Antonio. In questi casi, ovviamente, vedere direttamente le opere l’una vicino all’altra risulta assai utile. Infine la pietra tombale, potrei dire, degli studi guardeschi è stata la grande monografia di Morassi edita nel 1973, per la parte riguardante i dipinti, e nel 1975, per quanto riguarda i disegni.
5. Tornando a concentrare l’attenzione su Francesco, cosa si può dire riguardo alla sua formazione artistica?
Una domanda a cui è abbastanza difficile rispondere, nel senso che Francesco, fino al 1731, ha un’unica citazione in letteratura artistica. A parte l’atto di nascita, non vi sono documenti di alcun genere. Il padre muore molto giovane, quando Francesco quindi era poco più che bambino: non c’è dubbio che egli abbia appreso i primi rudimenti dell’arte dal fratello Antonio (peraltro, poco più vecchio di lui). Sembra tuttavia che abbastanza presto Antonio lasci la bottega, prendendo un altro incarico, ossia quello di pittore di casa dei Giovanelli, ereditandolo dal padre Domenico e lasciandolo successivamente al fratello Francesco stesso.
L’impressione che risulta dalle opere (non da documenti di altro genere in quanto per noi attualmente irreperibili), è che i Giovanelli lo abbiano inviato in Austria. I Giovanelli, infatti, erano di origine bergamasca, ma si erano trasferiti in Austria. Qui erano divenuti nobili, e avevano ottenuto enormi possedimenti terrieri e minerari, per trasferirsi infine agli esordi del ‘700 a Venezia, portando con sé Domenico Guardi, cioè il padre di Antonio e Francesco, che in quel periodo quindi stava a Vienna. I Giovanelli usarono Antonio e Francesco per decorare le ville e le chiese nelle loro proprietà italiane, venete e lombarde, tant’è che abbiamo trovato la prima opera sicura di Domenico a Valtrighe, un piccolissimo paese del territorio bergamasco.
Vi è appunto questa continuità nel rapporto tra Francesco e i Giovanelli, che dura fino agli anni ’70, tant’è che la pala di Roncegno di Francesco è fatta per i Giovanelli. Quindi, ciò che ipotizzò Nicolò Rasmo e credo sia la soluzione alla domanda è che negli anni tra il ‘31 e il ’38, anni assolutamente silenti per quello che riguarda le attività di Francesco, lo stesso sia stato in Austria a lavorare nei luoghi che erano proprietà dei Giovanelli: ciò verrebbe testimoniato almeno da tre piccole pale, due sono all’Accademia di Vienna, una è in una collezione privata milanese (verranno esposte in mostra). In queste tre opere ritroviamo esattamente l’impostazione tipica di Pietro Strudel e Paul Troger, degli artisti che, praticamente compaesani di Francesco, rappresentavano i principali protagonisti della pittura di quel periodo. All’atto del ritorno a Venezia (dovrebbe essere un po’ prima del 1738, poiché in quell’anno consegna una delle tre lunette per la chiesa parrocchiale di Vigo d’Anaunia), Francesco continua a confrontarsi con gli artisti veneziani contemporanei: quando vedrete la mostra vi accorgerete che per esempio ha una grande passione per Rosalba, la quale è spesso citata nei suoi dipinti. Poi, beninteso, vi è l’innamoramento per il vedutismo, che passa attraverso ovviamente Canaletto e in qualche misura di Marieschi. Tuttavia, come al solito, seguendo quasi una tradizione tipica di tutta la famiglia dei Guardi, in Francesco conta molto l’ispirazione diretta, esterna, successivamente tradotta nei dipinti.
6. Riguardo alla committenza: hai citato i Giovanelli; mi veniva quindi in mente, per associazione di idee, che essa deve essere stata molto diversa da quella di Canaletto. A tal proposito, quale possiamo dire essere stata la committenza specifica di Francesco Guardi?
Francesco Guardi non aveva tra i propri committenti, a differenza di Canaletto, il console Smith, e gli mancava quindi questa facilità di entrare nel mondo inglese. Tuttavia, esiste una notazione dei Guardi che racconta come a un certo punto, nel 1764, Francesco, avvalendosi della camera ottica, dipinga per un committente inglese due vedute, la prima di San Marco, la seconda di Rialto, esposte poi sugli arconi della basilica di San Marco, riscuotendo un grande successo. È peraltro difficile individuare chiaramente il suo tipo di committenza. Riguardo alle vedute e ai capricci i nomi dei committenti di Guardi non sono quelli altisonanti del patriziato veneziano; si chiamano Giacomo della Lena, Gianmaria Sasso, Giovanni Vianelli, il residente inglese John Strange, padre Giuseppe Toninotto (un vero estimatore del vedutismo in generale), oppure il canonico Giovanni Vianelli, il più compiaciuto dello stile guardesco. Sono personaggi, oggi ben noti agli studi, attivi come mediatori, agenti di vendita e orgogliosi collezionisti dotati però di fortune modeste. È in questo mondo di mezzo, fatto di affari più meno leciti e popolato da figure immuni da ogni regola, che si annidano gli estimatori di una pittura votata al primato dell’esecuzione e del virtuosismo, aldilà di ogni canone teorico.
7. Quali sono le fonti iconografiche e stilistiche preferite da Francesco Guardi?
Se per preferenze si pensa ai pittori, evidentemente si potrebbe guardare a Rosalba (i riferimenti potrebbero essere ad esempio una piccola “Madonna”, o ancora dei ritratti dipinti dalla pittrice e copiati poi da Francesco): evidentemente era un’artista che gli piaceva, per cui aveva un notevole interesse. Tuttavia, essi costituiscono episodi sporadici. Quando Francesco inizia a produrre vedute prende a riferimento forse Marieschi, poi ovviamente anche Canaletto; in qualche caso guarda alla pittura nordica, ai naturalisti olandesi e fiamminghi. Il suo rimane un continuo andare e venire. Forse, come è stato fatto anche per Tiepolo giovane, uno degli sport che si consiglierebbe ai giovani studiosi è quello di cercar di capire bene quale siano le derivazioni per Francesco e per il fratello Antonio. Quando abbiamo scritto con Federico Montecuccoli il libro su Antonio Guardi, ne abbiamo trovate a decine, poiché, lo ricordo, è proprio una tradizione della bottega famigliare l’essere pittori dotati di una non grandissima fantasia creativa, ma capaci di rielaborare delle idee che arrivano da altri colleghi.
8. Quali sono stati i contributi originali apportati da Guardi alla storia della pittura, o comunque cosa è rimasto, piaciuto di Francesco Guardi, quale è stata la sua influenza sugli artisti successivi?
Che Francesco Guardi abbia avuto una grande influenza sugli artisti successivi lo negherei proprio. È piaciuto molto agli inizi del ‘900, quando è stato riscoperto, appunto, come vi raccontavo prima, da Simonson ed è piaciuto molto per questa sua pittura estremamente libera, che in qualche maniera all’epoca venne confrontata con quella degli impressionisti e venne allora molto imitata, tant’è che di falsi dipinti di Guardi negli anni ‘30 e ‘40 ce ne sono a decine (e qualcuno è andato a finire anche in musei prestigiosi), ma credo che Francesco in vita non abbia avuto gran successo: sapete tutti della famosa storia di Edwards il quale, scrivendo a Canova, gli racconta che le vedute di Guardi sono fatte su tele di pessima qualità, con colori di scarto, e che non garantiva affatto della loro durata nel tempo. Credo che in vita lui e pure il figlio Giacomo fossero costantemente in difficoltà economica. Quando muore lo stesso Antonio, nel 1760, il medico che stende il suo atto di morte deve essere stato l’ultimo in assoluto a scrivere di lui, almeno fino al 1914, quando lo riscoprì Fogolari.
9. Com’è “la Venezia di Guardi”?
Sulla “Venezia di Guardi” è stato scritto di tutto, principalmente che è una Venezia già romantica, quando invece al Romanticismo ovviamente all’epoca nessuno nemmeno pensava. Molti hanno scritto, sulle orme di una storia della letteratura e di una storiografia, queste sì, invece, propriamente romantiche, di una Venezia del ‘700 ormai in sfacelo, completamente rovinata dal punto vista fisico, morale, economico. Il modo di dipingere gli edifici e le architetture soprattutto di Francesco ha richiamato alla mente appunto questa Venezia decadente, che invece decadente non fu, almeno fino agli anni ‘70. Era, all’opposto, una città estremamente viva, ricca. Una Venezia, quindi, un po’ diversa da quella che si è immaginata, e che non è la Venezia di Francesco Guardi. Il problema è viceversa il modo di dipingere di quest’ultimo, un modo che può portare l’osservatore a questo genere di impressioni, ma non credo assolutamente che il vecchio Francesco fosse aggiorno sulla situazione politica, economica, finanziaria di Venezia, e anche se lui moriva appena qualche anno prima della caduta della Repubblica, precisamente nel ’93, anche se già nei pubblici ritrovi si discuteva della probabile caduta di Venezia, anche se pure il Doge avvertiva una tale evenienza come reale, non credo che tutto ciò si sia riversato nei dipinti del nostro.
Non mi immagino, insomma, un Francesco Guardi del genere, anche perché, fino a un preciso momento storico, Venezia non fu quella che ci hanno tradizionalmente descritto, era bensì assai diversa, la città era ancora perfettamente funzionante, come pure ci illustrano i recenti saggi di Scarabello. Il problema, inoltre, non fu Napoleone, semmai quest’ultimo rappresentò l’evento storico decisivo per la caduta definitiva della città. Il reale problema fu semmai che, dal punto di vista militare, Venezia usciva da ottant’anni di assoluta pace disarmata e quindi praticamente aveva un esercito inesistente; dal punto di vista economico Venezia – Stato era in grosse difficoltà, mentre quelli che non avvertivano, se non in misura di molto inferiore, questi problemi, erano tuttavia i veneziani. C’era, questo sì, una situazione politica che effettivamente poteva far pensare a delle difficoltà legate al fatto che la forma, il modo dello Stato era mummificata da mille anni e quindi incapace di dare una risposta a quelle che potevano essere le istanze di novità provenienti dai cittadini di terraferma, dai veneziani, da quanti abitavano nei territori sudditi. Concludendo, una percezione più precisa, effettiva, della crisi arrivò solo alla fine degli anni ’70 o ai primi anni ’80, quindi forse troppo tardi per il vecchio Francesco Guardi, il quale aveva oramai superato la settantina. Non deve ingannare poi il fatto che in opere specifiche, quale ad esempio “Il parlatorio delle monache”, compaia anche la figura del mendicante o del povero: questa era semplicemente un cliché che apparve già nelle rappresentazioni di Carlevarijs. Pertanto, non credo che “la crisi di Venezia” abbia apportato alla maniera di Francesco cambiamenti notevoli.