Museo Correr

Museo Correr

DA BELLINI A TIEPOLO. La grande pittura veneta della Fondazione Sorlini

Percorso

La mostra, che si sviluppa in quattro sale dell’area neoclassica al primo piano del museo Correr, presenta cinquanta dipinti veneti e veneziani dal XV al XVIII secolo provenienti dalle residenze della bresciana famiglia Sorlini, riuniti per la prima volta in quest’occasione a formare un suggestivo percorso. Nell’allestimento sono stati privilegiati, a una successione cronologica sistematica, raggruppamenti per temi, tendenze e soggetti e, nella terza sala, la suggestiva ricostruzione di uno Studiolo del Collezionista.

Sala 1

Benedetto Rusconi detto il Diana
San Marco tra i Santi Girolamo e Lodovico da Tolosa
La figura di Benedetto Diana non ha goduto di particolare interesse da parte della critica, per lo più superficialmente portata a considerarlo uno dei tanti prodotti della bottega belliniana, ma dipinti come la tavola che qui si presenta ben testimoniano – oltre che del notevolissimo virtuosismo pittorico- della sua sorprendente autonomia, del suo desiderio di svincolarsi dagli schemi appresi durante l’apprendistato presso i Bellini, attraverso lo studio di opere di numerosi altri artisti, da Giorgione a Dürer, da Lotto ai maestri di scuola lombarda, quali il Romanino, il Moretto e anche Boccaccio Boccaccino. Di quest’opera colpisce soprattutto l’invenzione, inedita per il mondo veneziano, di collocare le maestose figure dei tre Santi davanti a finte nicchie marmoree, quasi fossero delle statue, alleggerendo però la composizione grazie agli ovuli vuoti in alto tra le nicchie e in basso al centro dei basamenti e ai fantasiosi cartigli marmorei di gusto quasi prebarocco.

Gerolamo Savoldo
Riposo nella fuga in Egitto
Questa tela, probabilmente proveniente dalla Chiesa dei Santi Apostoli a Venezia, propone un soggetto più volte raffigurato dall’artista, pur rinnovando l’ambientazione e la disposizione dei protagonisti nello spazio. In questo caso domina la monumentale figura della Vergine, seduta a destra col Bambino tra le braccia, avvolta in una luminosa veste rosso rosato, col capo coperto da un velo azzurro con riflessi argentei, non a caso fortemente illuminata dalla luce che piove dall’alto a sinistra, lasciando invece in penombra l’architettura in rovina alle sue spalle e la figura del vecchio San Giuseppe addormentato. Splendido il brano naturalistico sullo sfondo, con un piccolo paese di evidente derivazione nordica, davanti al quale si trovano un cavaliere rossovestito col suo cane ed alcuni altri personaggi, e l’ampia veduta di un’insenatura marina.

Domenico Campagnola
Sacra Famiglia e Santi
Allievo e probabilmente figlio adottivo del celebre incisore Giulio Campagnola, da cui deriva il cognome, Domenico lascia presto Venezia per Padova, ove opera per tutta la vita. Tra i suoi lavori, assai rare e preziose sono le pitture da cavalletto giunte fino a noi, come questa Sacra Conversazione che mostra la Vergine che regge il Bambino in piedi, contornata dai Santi Pietro, Paolo, Caterina d’Alessandria e Giuseppe. Si tratta di un’opera ancora relativamente giovanile del maestro in cui l’impostazione tizianesca della scena si assomma all’influenza del Pordenone, evidente nel giganteggiare delle grandiose figure in primo piano, e che sono connotate da una scrittura pittorica estremamente precisa, realistica, e da un colorismo forte e caldo.

Nicola Grassi
Mosé accolto nella casa di Jetro
La tela è incentrata sul primo incontro di Mosè con la futura moglie Zippora. Dopo aver ucciso una guardia egiziana che aveva a sua volta colpito a morte un prigioniero israelita, Mosè è fuggito nel deserto, e giunto nei pressi di un pozzo nella cittadina di Madian vede sette ragazze, intenzionate ad abbeverare le proprie greggi, malamente scacciate da alcuni pastori; allora interviene allontanando gli uomini e aiutando le ragazze nel loro lavoro. Per questo viene accolto nella sua casa dal loro padre, Ietro, sacerdote della cittadina e qui deciderà di sposare una di esse, Zippora, che gli darà due figli maschi. Il dipinto del Grassi mostra dunque il momento in cui il sacerdote, fattosi incontro a Mosè sulla soglia di casa, lo invita con un ampio gesto ad entrare; nella giovane donna biancovestita inserita tra i due protagonisti della vicenda è probabilmente riconoscibile la stessa Zippora, per la quale l’artista usa la stessa modella raffigurata nella splendida scena del Mosè salvato dalle acque della Pinacoteca Egidio Martini a Ca’ Rezzonico per la figura della figlia del faraone.

Nicoletto Semitecolo
Pietà
La figura e l’opera di Nicoletto Semitecolo presentano ancora oggi aspetti sconosciuti; certa è la sua formazione nell’ambito della bottega di Paolo Veneziano, mentre è il Guariento ad introdurlo nel fervido ambiente artistico di Padova, ove Nicoletto dipinge nel 1367 la sua opera più importante, la pala a comparti per l’altare di Santo Stefano nell’antica cattedrale cittadina, di cui la Pietà Sorlini costituiva in origine l’elemento centrale della facciata interna. Realizzata per proteggere alcune preziose reliquie dell’altare, la pala veniva aperta solo per esibirle ai fedeli e la Pietà era visibile solo in queste occasioni. Il dipinto, in ottimo stato di conservazione, mostra Cristo morto tra la Madre e San Giovanni: un’iconografia rara nel corso del Trecento, forse adottato per sottolineare il rapporto fra la morte di Cristo e quella dei Santi cui appartenevano le reliquie. In questa stessa direzione va la scelta di stagliare le figure contro un fondo uniformemente rosso, il colore del sangue.

Jacopo Palma il Vecchio
Ritratto di donna detta la Sibilla
Già appartenuto, tra l’altro, alle collezioni imperiali conservate nel Castello di Praga (1621), a quelle della regina Cristina di Svezia (1632) e a quelle del principe Filippo d’Orléans (1722), il dipinto è una versione autografa, di formato leggermente diverso, della simile opera conservata nelle Collezioni Reali Inglesi ad Hampton Court. “Fece il Palma ancora molti ritratti di Dame con ornamenti e vesti all’antica” scrive nel 1648 Carlo Ridolfi; e la maggior parte di questi ritratti giunti fino a noi (oltre a questa tavola e l’omologa di Hampton Court, occorre segnalare almeno la Giovane donna di spalle del Kunsthistorisches Museum di Vienna, la Flora della National Gallery di Londra, la Cortigiana del Museo Poldi Pezzoli di Milano e la splendida Donna bionda della Gemaldegalerie di Berlino) sono comunemente riferiti all’ultimo decennio di vita del pittore. Si tratta non di veri e propri ritratti, ma piuttosto di immagini sensuali e seducenti di giovani bellezze femminili destinate al mercato privato.

Giovanni Bellini
Madonna col Bambino
Nulla si conosce della storia antica di questo straordinario capolavoro, già appartenuto alla collezione Contini Bonacossi di Firenze, presumibilmente risalente alla prima metà dell’ottavo decennio del Quattrocento. Come nelle altre Madonne eseguite in questo periodo o di poco precedenti – quale, tra le altre, anche la Madonna Frizzoni del nostro Museo Correr- il pittore ha utilizzato un punto di ripresa lievemente ribassato, ponendo davanti alla figura della Vergine, che si staglia contro il cielo attraversato da nubi, un parapetto sul quale è collocato il Bambino, ma caratteristica peculiare del dipinto Sorlini è rappresentata dal fatto che il Bambino è ripreso addormentato. Iconograficamente, l’immagine della Vergine che prega mentre il Figlio dorme indica la premonizione del suo sacrificio; in questo caso tale premonizione è sottolineata anche dal colore del manto della Vergine, rosso come il sangue. Sapiente il gioco della luce che, piovendo da sinistra, mette in rilievo lo sviluppo elegantissimo delle pieghe di quel manto e sfuma sul dorso della mano sinistra giunta all’altra in preghiera.

Francesco Maffei
Santa Cecilia
Cecilia è unanimemente considerata la santa protettrice dei musicisti, costantemente raffigurata dai pittori con strumenti musicali. Ma le sue vicende biografiche, concluse con la decapitazione infertale per il suo rifiuto di adorare gli idoli pagani, non hanno legami con la musica, se non quella suonata nel corso della festa per il suo sposalizio con Valeriano, che Cecilia neppure ascoltava, presa com’era ad offrire al Signore il dono della propria verginità. Nel dipinto è raffigurata come una giovane bellissima, elegantemente vestita in foggia seicentesca, con un’acconciatura alla moda arricchita da un filo di perle, mentre suona l’organo, accompagnata da un cantore e da un suonatore di violino e palesa un singolare carattere profano, rotto solo dalla presenza, in alto, di un cherubino sceso dal cielo a portarle la palma simbolo del martirio cui verrà sottoposta e una corona di rose.

Andrea Celesti
La beata Edwige regina di Polonia
Edwige (1373-1399), figlia del re d’Ungheria e regina di Polonia, sposa giovanissima, per ragioni di stato, il fratello del re di Lituania, in cambio della conversione sua e di tutto il suo popolo al Cristianesimo, cosa nella quale si impegna intensamente, dedicandosi con particolare assiduità alla sorte dei poveri e dei contadini e morendo a soli ventisei anni in odore di santità. Per la ricca gamma di effetti luministici l’opera parrebbe un omaggio a Rembrandt, mentre la pur compunta figura della santa promana un senso di umanità terrena non certo idealizzata, sottolineata dall’ampia scollatura dell’abito ornato da veli, broccati intessuti d’oro e preziose pellicce.

Antonio Molinari
Ipsicrate recide la propria chioma per potersi dedicare all’esercizio delle armi
Questo dipinto fa serie con altre tre tele, egualmente di mano del Molinari ed egualmente proprietà della Fondazione Sorlini, che, come questa, narrano episodi della storia antica che hanno come soggetto atti eroici compiuti da antiche eroine per rispetto o in favore dei propri mariti o dei propri congiunti: delle prove d’amore incondizionato, dunque, che assumono evidentemente il valore di exempla virtutis. Quella qui esposta vede come protagonista Ipsicrate, moglie del re del Ponto Mitridate, ripresa nel momento in cui, dopo essersi tolta i gioielli che le adornavano l’acconciatura, si recide con una forbice la lunga chioma, in modo da poter così meglio indossare l’elmo che il servetto moro a destra le sta porgendo, allo scopo di poter seguire in armi il marito, impegnato nella guerra contro gli eserciti romani. La drammaticità della vicenda cede il passo a una forma teatrale melodrammatica, per la plastica imponenza delle figure, tuttavia egualmente piuttosto eleganti, e per la tipica presenza di quei fondali architettonici che conferiscono una vitale luminosità alle immagini, in forme che saranno poi riprese anche da Giannantonio Pellegrini, che del Molinari, assieme a Giambattista Piazzetta, sarà indubbiamente il più importante allievo.

Alessandro Varotari detto il Padovanino
Leda e il cigno
Questa elegante e sensuale immagine, le cui fonti d’ispirazione vanno cercate in Tiziano, è dedicata alla narrazione del famosissimo mito che vede come protagonista Leda, figlia di Testio, re dell’Etolia, che si era unita in matrimonio con Tindareo, re di Sparta dopo che questi, cacciato dal suo regno, aveva trovato rifugio presso la corte del padre. Mentre Leda si bagna nelle acque del fiume Erota, Giove la scorge, se ne innamora e, tramutatosi immediatamente in un cigno, scende dall’Olimpo per possederla. A seguito di quest’unione, Leda partorirà due uova: dal primo nasceranno Castore e Polluce, i famosi eroici fratelli che verranno detti i Dioscuri, mentre dal secondo verranno alla luce Elena, futura moglie di Menelao e causa scatenante della guerra di Troia per il suo amore con Paride, e Clitemnestra, che invece andrà in sposa ad Agamennone.

Sala 2

Antonio Zanchi
Giuseppe Ebreo interpreta i sogni in carcere
Giuseppe, imprigionato in Egitto a causa di una falsa accusa di violenza, interpreta i sogni di due suoi compagni di sventura, il capopanettiere e il capocoppiere del faraone. Il primo aveva sognato di portare sulla testa tre canestri; su quello superiore era il cibo destinato al faraone, ma gli uccelli lo mangiavano; Giuseppe gli predice che entro tre giorni verrà impiccato e che gli uccelli si ciberanno del suo cadavere. Il secondo aveva sognato una vite con tre tralci sulla quale erano spuntati i primi acini d’uva, che lui aveva spremuto dentro alla coppa del faraone, porgendola poi al sovrano; a questi Giuseppe predice che entro tre giorni verrà liberato e reintegrato nella carica. E sarà proprio grazie all’intervento del capocoppiere, riabilitato e reso al suo ruolo, che il faraone libererà anche Giuseppe dal carcere per la sua capacità di interpretare i sogni, in seguito, lo nominerà viceré. Nel dipinto- dovuto a uno dei massimi esponenti della corrente “tenebrosa” che a lungo ottenne grande successo a Venezia nel medio Seicento- colpisce in particolare la figura di Giuseppe per l’inusuale colorismo degli abiti azzurri e arancio e per l’eleganza marcata del gesto, in forte contrasto con le brutali figure dei suoi compagni di sventura.

Francesco Maffei
Giuseppe spiega ai fratelli il sogno dei covoni
La scena raffigura il giovane Giuseppe mentre spiega ai fratelli un sogno nel corso del quale aveva visto i covoni di grano di loro proprietà che si inchinavano davanti ai suoi, così come il sole, la luna e le stelle si erano prostrate di fronte a lui. L’interpretazione di questo sogno, che evidentemente andava a dimostrare la superiorità del più giovane dei figli di Giacobbe nei confronti dei dieci fratelli maggiori, sarà una delle ragioni scatenanti della successiva vendita dello stesso Giuseppe da parte dei suoi fratelli ai mercanti di schiavi e del suo conseguente trasferimento in Egitto. Le figure sono accalcate tutte in primo piano: alla pacata, serena gestualità di Giuseppe sin contrappongono le pose sforzate, emotivamente assai intese dei fratelli, dalle quali emergono gelosia o addirittura odio. Per comunicare ancor più chiaramente questo contrasto Maffei pone Giuseppe al centro della scena, contro l’azzurro luminoso del cielo attraversato da poche nuvole bianche, mentre i fratelli, riuniti a gruppi attorno a lui, hanno per sfondo le fronde degli alberi di un bosco cupo o una grande roccia brunacea, collocandosi dunque in una densa penombra.

Giulio Carpioni
Venere trattiene Adone
Negli anni precedenti al suo trasferimento a Vicenza, avvenuto entro il 1638, Giulio Carpioni frequenta a lungo a Venezia la bottega del Padovanino, e il rapporto con questo maestro, strettamente legato al mondo tizianesco lascia tracce indelebili nel suo stile, come è evidente anche in questo affascinante dipinto. Come Padovanino (e, prima di lui, Tiziano), Carpioni colloca il letto nel quale suoi personaggi hanno passato la notte
sulle prode di un bosco frondoso; ma alle prime luci dell’alba Adone decide di partire per la caccia e Venere, presaga del fatto che l’amato verrà ucciso da un cinghiale, invano cerca di dissuaderlo. Tipico della produzione matura di Carpioni è il gioco delle diagonali costituito dal sensuale corpo della dea, allungato sul candido lenzuolo nel vano tentativo di trattenere il cacciatore, da quello di Adone, che si ritrae con forza dall’abbraccio dell’amata, e del cane bianco, che pare assistere stupito alla scena.

Sebastiano Ricci
Bacco e AriannaAnfitrite e le ninfe del mare
I due dipinti, identici per cifra stilistica e misure, sono da considerare dei pendant, risalenti al felice periodo inglese dell’artista, quando egli si dedica con intensità alla produzione di scene di soggetto mitologico di palese sapore erotico, gradite ai suoi committenti, dando libero sfogo alla fantasia creativa e adottando schemi compositivi nuovi, con esiti di eccezionale freschezza ed eleganza. In questa coppia di tele le figure si propongono in primo piano, avendo come sfondo solo l’azzurro del cielo; esse si collegano fra di loro nel gioco armonioso e delicato dei gesti e degli sguardi, che le rende partecipi di un mondo extraterreno, dove domina una sensualità maliziosa, sottolineata dal vibrare della luce, che modella i giovani corpi.

Sebastiano Ricci
Venere accorre da Adone morente
Il mito cui la tela è dedicata è quello celeberrimo dell’amore tra Venere e Adone, il bellissimo cacciatore nato dal rapporto incestuoso tra Cinica, re di Cipro, e sua figlia Mirra. Per una distrazione di Cupido, Venere era stata colpita da una delle sue frecce e si era innamorata del giovane; ma Adone, spintosi a caccia malgrado il tentativo di Venere di trattenerlo, viene ferito mortalmente da un cinghiale. La dea, disperata, accorre allora ad abbracciare l’amato, dal cui sangue spunteranno gli anemoni, fiori di brevissima vita, come l’amore tra i due personaggi. Sebastiano rappresenta qui il tragico momento finale della vicenda: Venere scende a precipizio dal suo carro dorato, avendo accanto a sé la colomba e Amore piangente che impugna la fiaccola, dopo aver lasciato cadere a terra la faretra e l’arco; davanti a lei giace il corpo dell’amato senza vita, con accanto l’ormai inutile lancia, sorretto da una ninfa e pianto da alcuni altri abitatori dei boschi; a sinistra sono i cani del cacciatore immobili, accucciati, quasi partecipi al dramma che si è consumato. Un’opera di altissimo livello, per l’enfasi drammatica inusuale per Sebastiano e per la qualità del gioco della luce al tramonto, che si incentra sulla figura della dea, vera protagonista nel suo enorme dolore della vicenda, lasciando in parziale penombra tutti gli altri personaggi.

Giulio Carpioni
Il corpo di Leandro trasportato dalle Nereidi
Ero, sacerdotessa di Venere, e Leandro risiedevano in città che sorgevano sulle rive opposte dell’Ellesponto: ogni notte Leandro attraversava a nuoto lo stretto per incontrare l’amata, guidato dalla torcia che Ero accendeva sulla sommità della torre dove risiedeva. Ma una notte di tempesta la fiaccola si spegne e Leandro muore annegato tra i flutti; il suo corpo senza vita viene condotto a riva dalle Nereidi, le ninfe del mare, e quando, al mattino successivo, Ero lo trova sulla spiaggia, distrutta dal dolore si suicida gettandosi dalla torre. Il dipinto mostra il momento in cui alcune Nereidi, illuminate dalla luce dell’alba, issano sulla riva il bianco cadavere di Leandro, mentre Cupido alato getta rose, simbolo dell’amore, sul corpo ormai livido del giovane. A sinistra, su un’alta roccia a picco sulla riva del mare livido e agitato, appare la torre di Ero, da cui si diparte il fumo della torcia ormai spenta.

Giannantonio Pellegrini
Salmace ed Ermafrodito
La vicenda dell’amore nutrito dalla ninfa Salmace nei confronti del giovane Ermafrodito, figlio di Ermes e Afrodite, è narrata da Ovidio nelle “Metamorfosi”; di essa il pittore ha colto il momento in cui la ninfa raggiunge a nuoto Ermafrodito attraversando il laghetto in cui egli, credendosi solo, si era bagnato; Salmace, follemente innamorata del giovane, tenta di unirsi a lui che, viceversa, schivo e timido, si sottrae alle sue effusioni. Allora la ninfa implora gli dei di potersi unire per sempre all’amato e questi, commossi dalla forza del suo amore, acconsentono; Ermafrodito e Salace si fondono così in un essere che per metà è uomo e per metà donna. Questo splendido dipinto, dalla pennellata guizzante e dalle tonalità chiarissime del colore, è riferibile al periodo inglese dell’artista, nel quale i committenti apprezzavano particolarmente soggetti mitologici, con eleganti e sensuali nudi femminili, colti in pose languide.

Sebastiano Mazzoni
Venere e Marte nella rete di Vulcano
La tela è incentrata sulla narrazione della vicenda che vede come protagonista Vulcano, il dio zoppo del fuoco, marito di Venere, bellissima dea dell’amore, che lo tradisce con Marte. Informato dell’infedeltà della moglie dal Sole, Vulcano prepara una rete invisibile che, non appena i due amanti si stendono sul letto, li avvolge; il dio del fuoco allora convoca gli altri dei dell’Olimpo quali testimoni del tradimento. Nel dipinto la vicenda si è ormai compiuta: Vulcano, soddisfatto di aver svergognato i due amanti, se ne sta solitario sull’estrema destra, con sulle spalle un grande martello, suo simbolo, e getta solo uno sguardo di sfuggita su quello che sta avvenendo; degli amanti, Marte, ignudo (le sue armi e la sua armatura sono accatastate sull’estrema sinistra), si dibatte ancora per liberarsi dalla rete, mentre Venere si copre il volto con un velo, forse per la vergogna; accanto a lei il piccolo Amore, frutto della sua relazione extra coniugale, sembra quasi cercare rifugio sotto il corpo della madre. Bacco e Mercurio, che sono accorsi richiamati da Vulcano, sembrano divertirsi non poco a fronte dello svelarsi dell’intrigo amoroso.

Gaspare Diziani
BaccoFlora
I due dipinti, identici per tipologia pittorica e misure, costituiscono fin dall’origine un pendant. Le due divinità mitologiche sono facilmente riconoscibili per il risalto dato
dal pittore nella descrizione dei loro attributi iconografici ricorrenti. Bacco è presentato come un giovane ignudo, coronato di tralci di vite, con una pelliccia di leopardo gettata negligentemente sulle spalle e con ai piedi un otre che contiene il vino, sul quale sta appollaiato un amorino alato; un leopardo – uno degli animali addetti a trainare il carro del dio, a volte sostituiti da tigri o da capri – se ne sta invece a destra, quietamente accucciato malgrado un secondo putto alato tenti di montargli sulla groppa. A terra si trovano anche un grappolo d’uva e la conchiglia utilizzata dal dio per bere il vino. Flora, dea della primavera, dei fiori e della fioritura, è invece ripresa assisa sul suo carro dorato, appoggiato ad una grande nuvola, accompagnata da una serie di putti festanti, incoronata di fiori e intenta a distribuire rose sulla terra. Si tratta dunque di opere di notevolissimo interesse, che ben testimoniano la raffinatezza formale del pittore, alle cui immagini, sempre festose e serene, non sembra estranea una certa teatralità, che si giustifica con l’ottima conoscenza del mondo del melodramma, derivata dalla sua giovanile attività di scenografo.

Gaspare Diziani
Diana
Questa elegantissima immagine della dea della caccia, ripresa sdraiata in un ampio paesaggio che sfuma in lontananza in dolci declivi, avendo come unico compagno il suo cane, è caratterizzata da una raffinatezza formale davvero eccezionale, nel morbido modellato della bellissima figura della dea adagiata a terra, che sembra ordinare con il gesto della mano al cane di partire per la caccia, nel profilo “greco” del suo volto, nell’eleganza con cui sono evidenziati la veste damascata, i ricchi gioielli e la faretra delle frecce oro e rossa abbandonata sul terreno, perfino nella descrizione dello scattante animale, che sembra essersi improvvisamente animato per ottemperare al comando della sua divina padrona, nei colori intrisi di luce. Un dipinto estremamente affascinante, dunque, che certo ha colpito l’ignoto committente non solo per la sua indiscutibile, elevatissima qualità pittorica, ma anche per la notevole sensualità della splendida figura femminile.

Pietro Vecchia
Davide e Uria
In quest’opera della prima maturità, Pietro Vecchia dimostra di aver ormai messo definitivamente a punto quel linguaggio pittorico del tutto personale, rivolto alla restaurazione formale della tradizione pittorica cinquecentesca, ma espressa in forme moderne, evidentemente debitrici degli esempi della pittura barocca post caravaggesca.
Il dipinto è riferito all’episodio biblico dell’innamoramento di re Davide per Betsabea, giovane e bellissima moglie del generale Hittita Uria, dopo averla vista mentre faceva il bagno in prossimità del palazzo reale. Il momento qui ritratto è quello in cui Davide consegna a Uria una lettera per il comandante supremo, in cui lo raccomanda di far combattere Uria in prima linea, perché muoia, cosa che poi effettivamente avverrà, davanti alle mura della città che si intravede sullo sfondo.

Sala 3

Lo Studiolo del Collezionista

Girolamo Forabosco
Ragazza allo specchio
Allievo a Venezia del Padovanino, Girolamo Forabosco deve oggi la sua notorietà soprattutto alle numerose ed elegantissime immagini femminili. In questo genere di opere Girolamo coniuga le sue conoscenze del mondo tizianesco, filtrate attraverso la lezione del maestro, con la più moderna impostazione nel campo del ritratto derivata, oltre che dagli esempi di scuola emiliana, da quelli di Tiberio Tinelli, il ritrattista maggiormente “alla moda” nel corso dei primi decenni del Seicento, di cui indubbiamente il Forabosco è da considerare l’erede diretto. Il ritratto Sorlini si segnala anche per una particolarità inusuale al Forabosco: egli infatti non rappresenta il personaggio frontalmente, come d’uso nelle altre opere simili, ma di spalle: la giovane è seduta e si rimira su un piccolo specchio elegantemente incorniciato di nero e d’argento, dopo aver risistemato la sua acconciatura con il pettine che si intravede in basso. Un pezzo di virtuosistica bravura, che si segnala anche per la straordinaria scioltezza della resa pittorica e per pennellata leggera, quasi di tocco, che tende a sfumare le superfici.

Alessandro Longhi
Modelletto per il ritratto di Francesco Grimani
Il processo ideativo che ha portato Alessandro Longhi a concepire la versione definitiva dell’imponente Ritratto di Francesco Grimani, fin dall’origine esposto nel portego del palazzo veneziano della famiglia, ora proprietà Sorlini, deve essere stato alquanto controverso e laborioso; sono giunti fino a noi, infatti, due “modelletti” eseguiti dal pittore in preparazione dell’opera, diversi tra loro, ma diversi anche rispetto alla redazione finale del dipinto; entrambi sono confluiti recentemente a far parte della Fondazione. In quello qui esposto, davanti alla figura di Francesco appare il servitore moro inginocchiato, vestito di un’elegante livrea a righe, intento a porgere al personaggio ritratto un vassoio d’argento sul quale appare un’insegna non identificabile. In ogni caso questo modelletto di Alessandro – come del resto l’altro – è opera di ottima fattura, contraddistinta da una pennellata veloce e scorrevole, volta a suggerire le forme, più che a definirle puntualmente, e da un colorismo assai vivido.

Pietro Longhi
Il precettore di casa Grimani
Questo importante dipinto rappresenta un momento dell’educazione di un giovane appartenente alla nobile famiglia Grimani, la cui formazione è incentrata sui contenuti che appaiono nelle varie scritte sui quaderni tenuti in bella evidenza dai tre personaggi e nel cartiglio affisso in alto, nello spazio libero tra i due imponenti mobili biblioteca che fungono da sfondo all’immagine, e dai titoli dei volumi egualmente disposti in bella evidenza a terra, aperti sul frontespizio. Da un lato, sui quaderni, appaiono alcuni versetti in latino tratti dal Libro della Sapienza dell’Antico Testamento; dall’altro i libri sono tutti opera di scrittori francesi legati al mondo illuminista: quello appoggiato alle gambe della poltroncina su cui siede il giovane nobile in abito verde è il celeberrimo “De l’esprit des loix”, pubblicato da Montesquieu nel 1748, uno dei testi fondamentali dell’Illuminismo francese, assai apprezzato e letto a Venezia. La minuziosa rappresentazione dimostra, tra l’altro, l’attenzione del pittore per la realtà delle cose e la descrizione puntuale di ogni elemento che appare nei suoi dipinti.

Pietro Longhi
Ritratto di giovane prelato
Questo piccolo ritratto di un giovane prelato seduto nell’intimità del suo studio, che interrompe la lettura per rivolgere lo sguardo verso l’esterno del dipinto, quasi fosse stato colto di sorpresa dall’irrompere nella stanza di un visitatore non previsto, descrive con eccezionale dovizia ogni particolare dell’abito da casa del personaggio e della stanza in cui si trova: si veda, ad esempio, l’attenta definizione della finestra con i tipici vetri piombati o del mobile libreria alle spalle del prelato, con i numerosi volumi che compongono la sua biblioteca personale, tutti egualmente rilegati in pelle. Il dipinto non contiene elementi utili a identificare il personaggio ritratto, che è indubbiamente un giovane prelato, come testimonia la presenza della sua veste talare, negligentemente abbandonata su una sedia sull’estrema sinistra della tela. Certo non un qualsiasi parroco ripreso nella sacrestia o nella casa canonica di una piccola chiesa, ma un prete dotto, acculturato, come molti ne esistevano nella Venezia della fine del Settecento, la gran parte dei quali prestava la propria opera come precettori dei giovani rampolli delle più nobili famiglie.

Francesco Guardi
San Vincenzo Ferrer
Francesco Guardi ha iniziato la sua carriera come pittore di figura, ed è più tardi approdato al vedutismo cui è legata soprattutto la sua fama. Tuttavia, anche quando ormai era divenuto un apprezzato specialista della veduta, non sdegnava di riprendere la pittura di soggetto religioso, come questa patetica immagine di San Vincenzo Ferrer, canonicamente raffigurato con il saio bianco e nero dei Domenicani, con in mano il libro delle sacre Scritture e il giglio simbolo della purezza e sopra il capo la fiamma simbolo della sua fede. L’attributo delle ali e la presenza della tromba di cui appare in alto a destra solo la parte terminale richiamano alla intensa attività di predicatore svolta da Vincenzo nel corso della sua vita, soprattutto nel tentativo di convertire gli eretici catari e valdesi. Caratteristiche del dipinto sono la pennellata sfrangiata, che dà forma al volto del santo dai grandi occhi scavati da drammatiche ombreggiature, il gioco assai robusto del chiaroscuro, che infonde enfasi drammatica alle scene, il fondo brunaceo sul quale si accendono come lampi improvvisi pochi tocchi di colore chiaro.

Francesco Simonini
Il bicchiere della staffa
Simonini, noto soprattutto come pittore di battaglia, realizzò anche scene di genere, spesso con protagonisti dei soldati reduci dalle battaglie, paesaggi di fantasia e anche ritratti. Alla prima categoria va indubbiamente ascritto anche questo notevole dipinto che ha come protagonisti alcuni soldati che durante una marcia di trasferimento sostano nei pressi di un’osteria che reca l’insegna della mezzaluna. Uno di loro è sceso da cavallo e si è seduto su una botte con un fiasco di vino in mano a raccontare ad una terrorizzata popolana e al suo figliolo chissà quali mirabolanti avventure; un altro è rimasto in sella al suo cavallo grigio e pencola perigliosamente dalla sua cavalcatura per brindare alla salute del vecchio che gli ha versato il vino rosso dal fiasco; un terzo infine se ne va, avendo evidentemente già goduto dei benefici offerti dall’osteria. Un’immagine realistica, raccontata con qualche concessione umoristica, che contrasta evidentemente con lo spirito drammatico insito nelle tragiche rappresentazioni di scontri guerreschi del Simonini; il tutto reso con l’abituale fare pittorico estremamente fluido e sciolto e con un colorismo vivace e luminoso.

Giuseppe Zais
Paesaggio
Questo dipinto – assieme al suo pendant egualmente proprietà della Fondazione Sorlini e raffigurante un Paesaggio con viandanti e pastori – è senz’altro da considerare uno dei più alti raggiungimenti dello Zais nella fase iniziale della sua produzione di pittore di paesaggi. Mostra un panorama di amplissimo respiro evidentemente derivato dalla ripresa diretta di una vallata delle prealpi venete: la scena è inquadrata con due grandi gruppi di alberi, utilizzati come quinte ombrose per costringere l’occhio a non soffermarsi sul primo piano, ma a spingersi fino alle lontane catene di monti azzurrati che chiudono la veduta sullo sfondo. La vallata è costellata di poche abitazioni rurali sulle sommità delle collinette e da pochi personaggi: lavandaie che lavano i panni nel ruscello, una famigliola riunita sotto un grande albero, cavalieri diretti verso le montagne, una pastorella con i suoi armenti. All’ombra scura del proscenio si sostituisce, nei piani successivi della veduta, una intensa luminosità dovuta al battere del sole che illumina le case più lontane, rendendo ben visibile anche il piccolo villaggio sullo sfondo, con la chiesa e l’alto campanile.

Luca Carlevarijs
Paesaggio di mare
Questa bella veduta ideata di un porto di mare è caratterizzata dalle vivacissime macchiette e dall’efficace resa delle architetture e degli elementi paesaggistici, mentre il veliero che appare sull’estrema sinistra della veduta (nella realtà, una nave da guerra a vele quadre) appare del tutto identico a quello presente in un album di disegni con 24 fogli interamente dedicati a studi di imbarcazioni, conservato qui al Museo Correr: un modello che Luca ha, secondo la sua consuetudine, riutilizzato in diverse occasioni, inserendo la stessa nave in varie vedute del Bacino di San Marco.

Antonio Canal detto il Canaletto
Capriccio architettonico
Assieme al suo pendant, ora ad Hartford (U.S.A.), questo Capriccio architettonico ha fatto parte della collezione veneziana dei Donà dalle Rose, dove le tele erano considerate opera di Marco Ricci. In effetti, il Capriccio architettonico Sorlini – come del resto la tela di Hartford – mostra evidenti i segni dell’influenza delle realizzazioni di Marco Ricci sul giovane pittore appena rientrato dall’esperienza romana conclusasi nel 1721, nel corso della quale aveva deciso di cessare l’attività di scenografo finora svolta al seguito del padre per dedicarsi esclusivamente alla veduta: influenza che risulta, oltre che nelle scelte tematiche, anche nel gusto per quell’accentuata tensione chiaroscurale che distinguerà anche le sue prime vedute veneziane, e per la tipologia mossa, intensamente caratterizzata delle figurette che popolano la scena, fermandosi a discutere sulle rive del corso d’acqua in primo piano o recandosi ad esaminare da vicino gli elementi in rovina di quello che parrebbe un antico teatro.

Marco Ricci
Scena campestre con torre
Questa bella veduta, probabilmente ispirata ad un paesaggio reale delle Prealpi venete, è un ottimo esempio della fase ormai matura della produzione di Marco, che si evidenzia nel vibrante gioco delle luci e nella gamma variata dei colori, nella resa elegante e precisa di tutti gli elementi naturalistici e delle numerose e animate macchiette di contadini e di cavalieri che la animano. Il punto di ripresa piuttosto abbassato conferisce alla veduta una singolare profondità, accentuata anche dallo scalarsi nello spazio degli elementi naturalistici, il gruppo di betulle in primo piano, attorno alle quali si affaccendano due contadini, la roccia con due viandanti, uno a cavallo e un altro a piedi e il torrione cilindrico sullo sfondo, fortemente toccato dalla luce del sole. Splendida la figuretta della lavandaia che appare isolata nella radura a destra, con il suo cesto della biancheria lavata sul capo: un’immagine che servirà innumerevoli volte di esempio ai continuatori di Marco nel campo della pittura di paesaggio, dallo Zais allo Zuccarelli, fino al Cimaroli.

Francesco Guardi
Paesaggio
Questa piccola, deliziosa veduta ideata, è uno degli esempi più alti dell’arte paesaggistica di Francesco. Come spesso nei suoi capricci, egli gioca qui con la luce solare che piove da sinistra e che, dopo aver colpito con forza la facciata della grande casa con torre che appare sopra una collina a sinistra, va a riflettersi sul corso d’acqua che scorre tra le colline nella parte centrale della veduta, illuminando tutto il secondo piano del dipinto, dalle case che compongono i piccoli borghi che sorgono sulla riva opposta, fino alle montagne ancora innevate che appaiono sullo sfondo; viceversa, il primo piano resta in ombra, e le poche figurette di viandanti e pescatori che vi appaiono sono rese con macchie di colori vivissimi proprio per consentire loro di emergere dal fondo brunaceo.

Giuseppe Zais
Scena di battagliaI soldati si preparano alla battaglia
Se Giuseppe Zais deve oggi la sua notorietà soprattutto ai paesaggi, certo da non sottovalutare è la sua attività nel genere specifico delle battaglie, cui lo guidò il Simonini. Le due tele Sorlini, identiche per cifra stilistica e misure, formano evidentemente un pendant. La prima mostra i soldati, alcuni già a cavallo, altri ancora a piedi, che sembrano attendere il segnale per avviarsi al combattimento; tra di loro circolano anche alcune donne, una delle quali, quella seduta di spalle sull’estrema sinistra in primo piano, con un bambino in braccio, intrattiene tre soldati, ai quali forse sta predicendo il futuro. La battaglia – un furibondo scontro corpo a corpo tra cavalieri di due diversi eserciti europei – è invece il soggetto del secondo dipinto. Qui lo Zais ha ripreso due cavalieri che si affrontano, l’uno armato di pistola, l’altro di sciabola, nei pressi di un cavallo steso a terra assieme al suo cavaliere. Tutt’attorno la micidiale mischia coinvolge numerosissimi altri combattenti, in un groviglio quasi indistinto di corpi e di animali, dal notevole effetto drammatico.

Antonio Diziani
Veduta di un villaggio sul fiume
Il dipinto è uno dei più alti raggiungimenti della produzione di Antonio, figlio e allievo del celebre figurista Gaspare. Oggetto dell’attenta indagine dell’artista è un povero borgo di campagna, costituito da poche miserabili case e da un mulino sul corso d’acqua che scorre al centro, attraversato da un ponte di assi di legno. Sulla destra è un’osteria con pergolato, dove si sono raggruppati la maggior parte degli abitanti del borgo, mentre pochi altri rientrano dal lavoro a cavallo, o spingendo la carriola. Si tratta di un sorprendente e per certi versi coinvolgente documento visivo della misera esistenza dei ceti più poveri nelle desolate campagne del Veneto nel tardo Settecento, che colloca il pittore in una posizione assolutamente antitetica rispetto ai più celebri “paesaggisti d’Arcadia”, lo Zais e lo Zuccarelli in particolare, che amavano invece presentare una natura ordinata e “pettinata”, popolata di pastorelli e pastorelle felici ed eleganti, intenti in amorosi dialoghi, o di ninfe danzanti. Antonio invece riporta crudamente sulla tela la verità di un mondo miserabile, di esistenze destinate a consumarsi nella fatica e nelle malattie: è definitivamente tramontata la illusione d’Arcadia e si apre anche per Venezia quel “mondo nuovo”, caratterizzato da una grande attenzione alla realtà delle cose e della vita, che introduce ormai alle vicende tragiche della fine del secolo.

Sala 4

Giandomenico Tiepolo
Cristo e la Samaritana al pozzo
Nell’ottobre del 1750 Giambattista Tiepolo lascia Venezia per recarsi a Wurzburg, in Franconia, chiamato dal locale principe vescovo Carl Philipp von Greiffenklau a decorare la sala da pranzo della nuova Residenza; successivamente otterrà anche l’incarico di affrescare il soffitto dell’enorme vano dello scalone dell’edificio. Assieme a lui giungono in Franconia anche i due figli Giandomenico e Lorenzo, il primo ormai da qualche anno divenuto il suo più valido aiuto, il secondo ancora assai giovane – era nato nel 1726 – ma già da tempo avviato dal padre al mestiere di pittore. Durante i tre anni di permanenza in Franconia, Giandomenico, oltre a collaborare attivamente con Giambattista nella realizzazione degli affreschi della Residenza, ottiene anche numerosi incarichi indipendenti, da notabili locali, tra cui quello per questa tela, che narra il momento in cui Cristo, durante il suo trasferimento dalla Giudea alla Galilea incontra al pozzo di Giacobbe presso il villaggio di Sichar una donna di Samaria, che lo disseta e alla quale il Redentore si rivela. Qui il giovane Giandomenico si dimostra ancora legato all’insegnamento paterno, dimostrando precisando però un linguaggio più intimistico, delicato, forse collegato al gusto dei committenti e alle correnti pietistiche assai diffuse nella Germania protestante e per le quali la religione, in contrasto con il trionfalismo cattolico, si risolve soprattutto in un fatto di cuore.

Giambattista Tiepolo
L’angelo della Fama
Questa figura è una delle due parti sopravissute di una composizione di grande formato realizzata per il soffitto del salone principale di Palazzo Grimani ai Servi a Venezia, distrutto da un incendio nei primi anni dell’Ottocento. Forse in quell’occasione anche la tela del Tiepolo è andata rovinata, tanto che se ne sono salvati solo due frammenti. Il primo è entrato nel 1900 nelle raccolte della Galleria fiorentina degli Uffizi; il secondo è quello qui esposto. Le fonti non ricordano quale fosse il soggetto rappresentato da Tiepolo nel soffitto: tuttavia, non v’è dubbio che si trattasse di uno dei ricorrenti temi celebrativi della gloria e della potenza della famiglia del committente, che nel 1740 risultava essere la seconda per ricchezza dell’intero patriziato veneziano; lo confermano la presenza nel dipinto dell’angelo della Fama, intento a suonare la sua tromba per far conoscere al mondo intero le glorie della casata, e della corona d’alloro retta dal putto nel frammento fiorentino, evidentemente destinata a incoronare un personaggio della famiglia, rappresentativo di tutto il casato.

Jacopo Amigoni
Immacolata Concezione
Questa raffinata immagine della Vergine incoronata da un grande angelo alato è certo un dipinto destinato, date le limitate dimensioni, all’altare di una cappella privata all’interno di un palazzo nobiliare Qui l’Amigoni riesce a rendere assai viva un’iconografia ricorrente e ampiamente codificata, giocando sulla vaporosità di un colore estremamente vivace, esaltato nel contrasto tra il grigio-argenteo luminosissimo della veste della Vergine e il blu cupo del mantello, o nel rosa vividissimo della tunica del grande angelo, aggiungendo una schiera numerosissima di piccoli putti e cherubini alati nelle pose più disparate, splendidi nella leggerezza da pastello del loro trattamento pittorico. Insomma, sotto il pennello lieve e sensibile dell’Amigoni, la scena si fa estremamente festosa, perfettamente in linea col mondo raffinato del rococò internazionale di cui il maestro veneziano è stato indubbiamente uno dei più significativi rappresentanti

Giambattista Pittoni
Transito della Vergine
Questo prezioso bozzetto è lo studio preparatorio per un’opera perduta del pittore veneziano realizzata per la chiesa dei Filippini a Vicenza, di cui costituisce la testimonianza puntuale: il letto a baldacchino che ospita il corpo della Vergine si dispone diagonalmente sopra un rialzo ligneo all’interno di un salone monumentale e tutt’attorno sono disposti gli Apostoli, che assistono all’evento. Le forme sono vibranti, realizzate con rapidissime e nervose pennellate assai ricche matericamente e ruolo fondamentale riveste il gioco chiaroscurale, attraverso il quale il pittore tende a mettere in grande risalto la figura centrale della Vergine, vestita di abiti azzurri e rosa luminosissimi, e a porre in ombra quelle tuttavia grandiose degli Apostoli, ripresi nelle più diverse posture, alcuni piangenti, altri inginocchiati, altri intenti alla lettura dei Sacri

Francesco Guardi
Cristo deposto dalla croce
Questo commovente dipinto, firmato, di impressionante impatto drammatico, mostra, secondo le forme espressive del Vesperbild tedesco, la Madonna che sorregge il corpo di Cristo morto, deposto dalla Croce, avendo alle sue spalle San Giovanni. Alla fase progettuale di questa composizione sono riferiti due diversi disegni preparatori, il primo conservato al Museo Civico di Bassano del Grappa e il secondo al Museo Correr di Venezia, qui esposto, in cui Francesco ha posto maggiore attenzione nella resa delle fisionomie, lumeggiando con cura il modellato e già indicando, sia pure con brevi tratti sommari, il paesaggio che apparirà sullo sfondo del dipinto. La paletta deriva da un modello iconografico tipico del mondo di cultura tedesca, quello del Vesperbild, ed è forse stata eseguita sull’emozione prodotta dalla conoscenza di una simile immagine, forse scultoria, opera di un artista del passato. Forse, in questo senso, significativo appare anche il fatto che la tela sia stata ritrovata in una collezione tedesca. Splendido è il luminoso brano paesistico che si apre alle spalle dei protagonisti della tragica vicenda; particolarmente attenta la resa della corona di spine e dei chiodi con cui il corpo Cristo era stato fissato alla Croce abbandonati in primo piano.

Francesco Fontebasso
Alessandro ricevuto dal sacerdote Jaddone
Una delle imprese decorative più impegnative tra le molte messe a segno da Francesco Fontebasso riguarda gli ambienti della villa e della barchessa che si trova a Santa Bona, presso Treviso, il cui committente è stato riconosciuto in Sebastiano Uccelli, ricco avvocato “fiscal” della Procuratia de Citra, che aveva acquistato nel 1744 la proprietà dalla nobile famiglia veneziana degli Zenobio. Nella barchessa Francesco ha dipinto una serie di affreschi e varie opere su tela, tolte d’opera dopo la disfatta delle truppe italiane a Caporetto nel 1917 e disperse sul mercato, due delle quali oggi fanno parte dalla Fondazione Sorlini e che costituiscono, come quella qui esposta, un ottimo esempio dello stile maturo del pittore veneziano, mantenendo gli elementi caratteristici della sua poetica.
Fontebasso è infatti il pittore che più degli altri tentò una mediazione tra i modelli di Sebastiano Ricci e quelli del Tiepolo: si noti ad esempio come ad una impostazione scenografica di stampo veronesiano – riccesco si aggiunga una particolare attenzione agli effetti chiaroscurali che deriva a Francesco dalla conoscenza dei modelli tiepoleschi a lui ben noti anche per la sua pressoché certa frequentazione della bottega di quel maestro.

Antonio Guardi
Muzio Scevola davanti a Porsenna
La tela Sorlini non è l’unica dedicata da Antonio al drammatico evento che vede protagonista Muzio Scevola, che, entrato furtivamente nell’accampamento etrusco con l’intenzione di eliminare il re nemico, Porsenna, che aveva portato le sue truppe fino a sotto le mura di Roma, uccide per errore lo scriba del re e, una volta catturato, decide di bruciare egli stesso la propria mano destra, per dimostrare il suo assoluto sprezzo per la sua vita. L’opera si ispira alla tela di egual soggetto dipinta da Giambattista Tiepolo tra il 1726 e il 1729 per il salone delle feste di Palazzo Dolfin a Venezia e ora conservata all’Ermitage di San Pietroburgo, modificandone però notevolmente la struttura e i particolari, seguendo il proprio gusto e la propria sensibilità, fino a creare un’opera assolutamente indipendente, sia nella struttura compositiva che nella resa pittorica, che sotto il suo pennello raggiunge effervescenti effetti tipicamente rococò.

Gaspare Diziani
Sant’Agostino sconfigge l’eresia
Di altissima qualità pittorica è questa piccola tela incentrata sulla figura di Sant’Agostino (354 – 430), vescovo in tarda età di Ippona, dopo essere stato battezzato a Milano da Sant’Ambrogio, e che combatté duramente contro l’eresia, realizzando importanti riforme liturgiche e pastorali. Si tratta del bozzetto preparatorio per un soffitto destinato alla decorazione della libreria del convento veneziano di San Salvador ora in deposito alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Il Santo vescovo appare assiso sulle nubi e regge tra le mani il libro; è accompagnato nella sua ascesa al cielo da un angelo e da numerosi cherubini alati, due dei quali reggono il pastorale e la mitria, mentre un terzo, armato di fiaccola, fa precipitare in basso l’eresia, di cui, come detto, Agostino fu acerrimo nemico.
Come si nota dalle emergenze della tela, in origine il pittore aveva pensato ad un’opera di formato ottagonale, condizionato probabilmente dalle dimensioni dello spazio che aveva a sua disposizione nel soffitto dell’ambiente destinato ad ospitare il dipinto maggiore; solo in seguito, forse su sollecitazione della committenza, a fronte di una possibile, diversa collocazione dell’opera, ha provveduto egli stesso ad ampliare l’immagine fino a farla divenire di formato rettangolare. Tipiche del Diziani sono l’eccezionale freschezza di tocco e la splendida brillantezza dei colori, di derivazione riccesca.

Giannantonio Pellegrini
Apollo e le Muse sul Parnaso
Come tutti i grandi decoratori del Settecento, anche Giannantonio Pellegrini ha dipinto numerosi bozzetti, che potevano essere utilizzati per la partecipazione a concorsi per l’assegnazione di un incarico particolare di interesse pubblico oppure solo per sottoporre al committente una “prima idea”, ovviamente suscettibile di modifiche, di quello che il pittore proponeva dovesse essere poi dipinto, in scala maggiore, nella sua dimora o nella chiesa di sua pertinenza. Per la loro stessa natura, quindi, non necessariamente i bozzetti hanno sempre avuto un seguito: è il caso anche di questa immagine, che mostra Apollo che raggiunge in volo, illuminandole con la sua luce abbagliante, le Muse attestate sul monte Parnaso, tra le quali però si è infiltrato anche il vecchio Cronos alato, evidentemente preparatoria per un affresco a soffitto di cui non si ha notizia.

Giambattista Pittoni
Rachele nasconde gli idoli
Questa tela è stata riunita nel 1968 nella collezione Sorlini al suo pendant, raffigurante Rebecca ed Eleazaro al pozzo, da cui era andata divisa già negli anni precedenti al secondo conflitto mondiale. L’evento narrato nella tela esposta è incentrato su un episodio delle vicende del patriarca Giacobbe, il quale, dopo aver acquistato per un piatto di lenticchie la primogenitura dal fratello Esaù, con la benedizione del padre Isacco si mette in viaggio alla volta della terra di Carran per trovare moglie. Qui incontra Labano, fratello di sua madre, che gli concede in sposa prima la figlia maggiore Lia e, dopo sette anni, anche l’altra figlia, Rachele. Quando Giacobbe decide di far rientro in patria, Rachele, all’insaputa del marito, ruba al padre le statuine delle divinità domestiche, che sarebbero spettate per legge al figlio primogenito; non appena Labano se ne accorge, raggiunge assieme ai suoi figli l’accampamento di Giacobbe e lo accusa del furto; questi gli concede allora di ispezionare l’accampamento per ritrovare gli idoli, che Rachele aveva nascosto sotto il basto del cammello sopra il quale era seduta e dal quale si rifiuta di alzarsi, perché indisposta; per questa ragione, dunque, Labano non riesce ritrovare le statuette, il cui possesso sanciva il diritto di ereditare per intero i beni della famiglia.

Francesco Fontebasso
Il vitello d’oro
Dopo aver condotto gli Israeliti attraverso il deserto fino ai piedi del monte Sinai, Mosè sale da solo sul monte, per ricevere, come Dio gli aveva annunciato, le tavole dei dieci Comandamenti; qui egli sosta per ben quaranta giorni e quaranta notti in colloquio con il Padreterno, e nel frattempo gli Israeliti, stanchi di aspettare, decidono di costruirsi da soli un’immagine sacra da adorare: affidano quindi tutto il loro oro ad Aronne, fratello di Mosè, il quale lo fonde ricavandone un vitello d’oro, davanti al quale il popolo offre sacrifici e danza. Una volta sceso dal monte, Mosè, estremamente adirato per l’idolatria dei suoi correligionari, scaglia con veemenza a terra le tavole avute da Dio e distrugge il vitello d’oro; subito dopo riceverà da Dio l’ordine di ritornare ancora una volta sulla cima del Sinai, da dove scenderà dopo altri quaranta giorni, portando con sé le nuove tavole della Legge. Il dipinto Sorlini è incentrato sulla narrazione della prima parte della vicenda: in primo piano, nella radura antistante al monte Sinai dove gli Israeliti hanno alzato le tende del loro accampamento, appare infatti l’idolo contornato dal popolo festante mentre sullo sfondo si intravede il monte stesso, sulla cui sommità avvolta in nubi rosate l’Eterno giunge in volo a porgere a Mosè le tavole dei Comandamenti.

Giuseppe Bernardino Bison
Scena di storia romana (La tenda di Dario)
Non è facile indicare con precisione il soggetto di questa tela, variamente interpretato in una non meglio identificabile scena storica romana oppure in un’immagine della tenda dell’accampamento di Dario. In ogni caso, la tela ben si inserisce nell’ambito delle numerose opere prodotte dal Bison in rapporto col mondo teatrale, che l’artista assai ben conosceva per la sua intensa attività di scenografo svolta per i principali teatri del Veneto e del Friuli, per l’impianto decisamente scenografico, con la tenda che definisce il proscenio a disposizione dei protagonisti, aprendosi in una veduta “a cannocchiale” della città, dove si collocano le comparse, e per la marcata e drammatica gestualità dei personaggi.