La mostra propone una quarantina di gioielli in oro, argento, pietre preziose e semipreziose, disegnati e realizzati alla fine degli anni novanta dall’ architetto marocchino Fathiya Tahri Joutei. Attraverso le parole dell’autore e gli intensi brani lirici della poetessa Nouzha Fassi Fihri, del premio Gouncourt Tahar Ben Jelloun e di Serge Lutens, si colgono gli elementi fondamentali del percorso artistico di Fathya Tahiri e meglio si comprende quella poetica che si traduce negli straordinari gioielli multimaterici.
“La mia passione per la materia risale, così mi dicono, all’età dell’innocenza, quando da bambina accarezzavo la seta, ipnotizzata dalla sua trama morbida e dai suoi colori cangianti. Poi vennero il disegno, la scultura in cera, la lavorazione del legno che praticavo come altrettanti hobby. La mia vocazione per l’architettura fu il coronamento di quell’inclinazione naturale. Nell’esercizio della mia professione attraversai in lungo e largo il mio paese ed ebbi la rivelazione dei suoi suk vivacemente decorati. A Ouarzazate scoprii incredibili varietà di pietre preziose o semipreziose che sembravano nate dal sole ardente di quella città annidata alle soglie del deserto, al pari delle sue mura rosse e dei suoi uomini dal profilo scolpito nella roccia. Mi bruciavano il palmo della mano, mi abbagliavano la vista, mi affascinavano con il loro splendore quelle mille sfaccettature che raccontano la storia di generazioni di carovanieri che vendevano o acquistavano minerali, diffondendo anche le loro cognizioni tecniche come un seme da cui sarebbe poi sbocciata un’infinità di monili rustici che vanno dal braccialetto da caviglia, pesante come una catena d’amore, alla fibula cesellata, alla collana abbellita da una combinazione di cerchi e rombi smaltati, agli anelli multiformi, talvolta incrostati di una pietra luminosa. A questa iniziazione, ricca della commistione dei secoli, delle razze e delle etnie, univo la mia memoria segnata dalla finezza degli ornamenti delle donne della mia città natale, nei quali l’oro fino è incastonato di smeraldi, ornato di perle, cesellato da mani esperte. Cominciai con l’accostare le pietre e le loro luci in modo da creare cascate ricadenti sul seno o danzanti intorno al collo. E, come ogni artista che proceda lungo la sua strada senza mai fermarsi né tornare indietro, divenni scultrice, ispirata ancora una volta dal mio mestiere di architetto. Allora, nello stesso modo in cui avevo scolpito di volta in volta la pietra in forma di fiore o di uccello posato sul suo ramo e ne avevo ornato i miei muri, cominciai a manipolare da autodidatta l’oro e l’argento, che si piegarono alle forme nate unicamente uscite dalla mia fantasia. La donna divenne così per me lo spazio privilegiato sul quale posare i miei gioielli come un’estensione della sua bellezza.” – Fathiya Tahri
“Chi ha assaggiato il veleno ne serba per sempre l’aspro sapore nella propria memoria. La morte, grande signora, non suscita forse all’approssimarsi della sua ombra quel brivido che chiamiamo creazione e che fa della propria legge una necessità? Fathiya diviene a questo punto del proprio destino. Sa davvero perché lo fa? Si riconosce nelle proprie opere? Tutt’al più in esse può dimenticare se stessa… E in questo modo esistere. Le sue pene, preziose allo sguardo di chi le ama, Fathiya le imprigiona, le trasfonde, le imprime in fusioni, morsure, tortiglioni, proliferazioni d’oro, d’argento da cui si distaccano gemme, smeraldi, rubini, zaffiri, diamanti e altre pietre che, in virtù della sua scelta, diventano rare.
Perle prigioniere protette dalla loro maschera a rete, universo esoterico e nondimeno così diretto… Fiori, rocailles dal cuore nero, qui nulla evoca in senso primo una realtà, e nondimeno tutto la suggerisce: personaggi misti, bestiari magici, ombre giavanesi e altre chimere. In questi “fondi di caffè” tradotti in oro vero dobbiamo intuire la veggenza: qui l’imprevisto si fa creatore. Questi paesaggi dell’irrealtà, queste lave e questi altri mondi non riflettono forse sogni e desideri di Fathiya di accedere all’origine? Fathiya è Fassi, i suoi occhi di un azzurro irregolare, particolare, racchiudono il suo segreto, che forse conosce lei sola e che ci affida attraverso ciascuna delle sue mitologie. Invaghita dell’ideale, della perfezione – nata sotto il segno della Bilancia – non trova rimedio o requie se non nell’offrire ai nostri occhi i propri sortilegi che io scopro a Marrakech, questa seconda Venezia…” – Serge Lutens
“L’armonia è un malinteso. Siamo ormai avvezzi a tenerci lontani dal labirinto dell’inquietudine perché abbiamo un gran bisogno di dosare il nostro sguardo. Tradizionalmente un gioiello è cesellato in una materia fine e preziosa affinché la serenità possa nascere dall’armonia delle forme, e la poesia da quell’eternità che è il mestiere dell’artigiano. Invece Fathiya Tahiri innova: schiude altre vie alla grazia, all’eleganza, alla bellezza. I gioielli che scolpisce, gli oggetti che inventa, segnano una rottura calma ma decisiva con l’eterno ritorno dell’alta tradizione di una società che ama perpetuare la medesima linea nella gioielleria. Pur salvaguardando l’esigenza e il rigore che impone la nobiltà della materia scelta, Fathiya Tahiri, da artista e da artigiana, architetto di mestiere, crea nuove forme per un’estetica del superamento. Il suo immaginario sprigiona un’inventiva che incanta, stupisce e affascina. La collana non è più un ornamento, una presenza attesa, prevedibile di quell’armonia che rassicura e riposa lo sguardo. La collana è un’opera d’arte, l’espressione di una libertà che arricchisce il patrimonio. L’artista che si rifugia in una fonte unica, un immaginario familiare, una terra nota, non conosce le turbolenze del segreto. Bisogna invece tentare il mistero, quell’immenso territorio che governa le nostre incertezze, le nostre domande e le nostre notti insonni. Fathiya Tahiri vi s’inoltra con audacia e coraggio. Forse perché è donna e marocchina.” – Tahar Ben Jelloun
“Fathiya conosce il linguaggio delle pietre, la musica dei metalli, il discorso del chiaro e dello scuro, del pieno e del vuoto. Tocca con mano leggera il metallo prezioso, lo accarezza, lo doma o lo aggredisce per dare infine vita all’opera inedita che accede al novero delle opere immortali… L’ametista trova riparo nelle pieghe del metallo come in un morbido nido. Come la luna piena circondata di stelle, si adorna di diamanti che la circonfondono di luce su un fondo d’oro ricamato… Incanta, ammalia il bel topazio color miele. Vigila nel proprio scrigno d’oro giocando sui contrasti, ombra e luce, sole e luna, stregando coloro che soccombono al suo nettare, imprigionandoli tra i suoi petali come fa il fiore carnivoro con l’insetto irretito. Il metallo si piega alla sua bellezza, lo stringe tra le sue braccia di luce, lo avvolge, s’incava per accoglierlo nel proprio seno come fa la madre con il figlio concepito nelle proprie viscere… Scolpire il corpo. Farlo e disfarlo. Conferirgli l’agilità dell’araka. Fare della bocca una rosa rossa, dei denti una collana di perle, del collo un lingotto d’oro, del ventre un disco di luce che ruota fino alla vertigine… Scolpire poi il gioiello, ornamento complementare di tanta bellezza, appositamente creato per integrarla e innalzarla al sublime. Posarvi poi delicatamente sopra il rubino sanguinoso, il diamante dal fulgore unico e lo smeraldo d’acqua corrente… E l’artista si annulla dietro la magnificenza della natura. Non c’è bisogno della sua presenza esibita. Essa è qui unicamente per armonizzare, per ricreare il letto naturale della pietra nel metallo sul quale la incrosta senza imprigionarla, lasciandola libera d’irradiare il suo fulgore, di abbagliare, di narrare il suo periplo dacché ha lasciato il suo ambiente naturale fino al momento in cui si è trasformata in questa meraviglia dalle molteplici sfaccettature, destinata a ornare la donna… Opulente e scabre al tempo stesso, le sculture Tya affascinano per la loro grandiosa bellezza. Come la terra del Marocco, terra di contrasti dai colori esasperati e dall’intensa luminosità, esse combinano la rugosità della materia con l’acuto senso della sfumatura nelle forme, l’armonia dell’insieme, il rigore inflessibile dell’opera d’arte… Fathiya plasma il metallo, lo attorciglia, lo cesella, lo incrosta di pietre. Dalle sue mani nascono uno, più serpenti che sembrano vivi. Il loro veleno è pronto a sprizzare. Ma l’incantatore è presente. Vigila. Li immobilizza nel loro slancio. E nondimeno essi mantengono l’intelligenza della cosa viva… L’artista non pretende di emulare Dio. La sua opera è solo un ulteriore omaggio alla creazione. Un omaggio a quella vita che egli ha fatto sbocciare nelle proprie creature. L’opera di Fathiya è una preghiera, un atto di fede…
Il metallo si piega tra le mani esperte. Appena uscito dalla forgia, ancora caldo, si lascia manipolare dall’artista per conseguire la forma che essa intende conferirgli. Ma la sua docilità è solo apparente. In realtà si ribella, qua si gonfia, là esplode, ignora le forme classiche per fare infine ritorno all’ordine, allorché giunge con l’artista a una simbiosi perfetta che si materializza nell’opera d’arte… Mušrabiyyah cesellato dietro il quale sta la “pietra” che rivolge uno sguardo curioso al mondo come la donna dissimulata da ogni sorta di veli e, come lei reclusa, prigioniera del metallo che l’avvolge, si ricopre dei propri ornamenti per incantare maggiormente e suscitare un desiderio ancora più forte… La perla guizza sul collo madreperlaceo come guizzava un tempo nella sua conchiglia, al ritmo ondeggiante dell’oceano. Solleva il diamante in schizzi di luce prima di rannicchiarsi nell’oro che l’artista ha scolpito in forme inusitate, e rifulgere in tutto il suo splendore.
«Mi adorno di collane e il mio petto adorna meglio le collane di quanto le collane…»
Il petto della donna, spazio traslucido sul quale risalta la materia della perla che scorre tra i seni verso la promessa dell’eden. La collana di perle che si spezza e ricade, trattenuta nel suo precipitare da conchiglie d’oro, come la terra che raccoglie nei suoi crepacci i raggi solari… Vola sulla pelle dal profumo sublime. Vola alla ricerca dell’elisir di vita che ti farà danzare fino al delirio. La donna ne è il santuario. Ne è la promessa suprema. Il verde dello smeraldo, il rosso del rubino, il fulgore del diamante raffigurano i colori delle tue ali, raffigurano l’effimero e l’emozione che essa suscita e, al tempo stesso, il sapore dell’eterno...” – Nouzha Fassi Fihri