Museo Correr

Museo Correr

PAROLE E FIGURE. Momenti di storia del libro e della stampa dalle raccolte del Museo Correr.

Percorso

Sala 6. Questa meravigliosa arte della stampa. “Et tutto nasce, et procede dalla stampa la quale ha aperto gli occhi a’ ciechi, e dato il lume agli ignoranti. Arte veramente rara, stupenda et miracolosa.” Con queste parole, La Piazza Universale di tutte le professioni del mondo di Tommaso Garzoni (1549-1598), una curiosa enciclopedia popolare dei mestieri del tempo, loda la“nuova arte” della tipografia che ha rivelato la vanità delle superstizioni e ha avvicinato il libro a tutti. Da qui ha inizio il nostro viaggio nella storia del libro e della stampa, la cui tecnica viene illustrata con precisione nelle tavole del padovano Vittorio Zonca (1568-1602) e in quelle di un’edizione italiana dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert. Non manca, rarissima, la testimonianza della prima opera uscita dall’officina dell’inventore della stampa, Johan Gutenberg: si tratta di un frammento della celeberrima grande Bibbia delle 42 linee detta anche Mazarina, del 1455, irta di segni angolati fittamente impressi sulla pergamena. La prima età del libro a stampa è documentata da altri incunaboli, le prime opere stampate a caratteri mobili entro l’anno 1500. Nei primi decenni i più preziosi esemplari, a volte stampati su pergamena, venivano decorati con miniature a colori e in oro come i manoscritti, dei quali riprendevano anche l’iconografia dello scrittore: amanuense seduto nello studium, come si può vedere nel Sant’Ambrogio, o dictator che detta il testo a un secretarium, come nella prima Storia di Venezia scritta dal patrizio Bernardo Giustinian (1408-1489). In seguito si cominciarono ad accostare sul piano del torchio le matrici lignee alle forme tipografiche: nasceva così il libro illustrato, che ebbe una gran diffusione in particolare a Venezia dove raggiunse altissimi livelli di qualità. Ed ecco i primi stampatori: la stretta vicinanza con il mondo germanico, ove la tipografia nasce, e la vocazione per i commerci e i traffici, fecero di Venezia la prima città dove furono attive contemporaneamente numerose officine di stampa e tedesco fu il primo stampatore qui stabilitosi 1469, Johan von Speyer, Giovanni da Spira con il fratello Wendelin o Vindelino. Fra gli altri emerse Nicolas Jenson (1420 ca.-1480) e, alla fine del secolo, l’italiano Aldo Manuzio (1450 ca.- 1515) professore di lettere latine e umanista, che legò il suo nome, fra i più illustri di tutta la storia del libro, garanzia di qualità eccelsa, a un progetto editoriale ampio e colto, rivolto verso l’antichità latina e greca, senza trascurare l’attualità politica o la grande letteratura in lingua toscana del secolo precedente, come le lettere di Santa Caterina, o l’opera di Dante e Petrarca diffusa in economici libretti di piccolo formato, i “libelli portatiles”, che furono imitati da molti, anche all’estero. Una caratteristica comune dei libri stampati in Italia, fin dalle origini della tipografia, da stampatori stranieri e poi da Manuzio e dagli altri italiani, è la bellezza dei caratteri, che venivano disegnati a partire dalle epigrafi romane per le maiuscole e dalla littera antiqua, già adottata da umanisti toscani o veneti, per il testo minuscolo, detto tondo o Romano, che per la sua eleganza e leggibilità divenne il principale carattere di stampa in ogni paese e in ogni tempo. Manuzio per primo adottò, nei libretti tascabili editi a partire dal 1501, il corsivo, disegnato per lui dal calligrafo Francesco da Bologna detto Griffo, sul modello della scrittura umanistica.

Sala 7. Viaggi nel mondo, viaggi nel libro. Per i mercanti o i gentiluomini della Germania e dell’Europa centrale, Venezia non è solo la prima meta raggiunta nel viaggio in Italia, ma è anche l’inizio di ogni viaggio verso il Sud e quasi la porta dell’Oriente. Nel 1483 una spedizione di ecclesiastici e laici giunse da Magonza a Venezia per raggiungere la Terra Santa a bordo di due galee veneziane. Questo pellegrinaggio di un gruppo di crociati, senza scopi (almeno immediati) di guerra e di conquista, avrebbe segnato profondamente loro stessi e la cultura europea, facendo scoprire -attraverso il fedele resoconto della Peregrinatio– un mondo sconosciuto, fatto di porti, città, luoghi santi ma anche di popolazioni con propri abiti, lingue, scritturee anche culti diversi (cristiani o “maomettani”), che furono analiticamente descritte in lingua latina, in un libro a stampa edito nel 1486, nella città di Gutenberg, e poi più volte in Europa, progettato e scritto da Bernhard von Breydenbach, giovane canonico che aveva chiamato con sé un pittore fiammingo, Erhard Reuwinck, autore dei rilievi, delle incisioni su legno e della stampa. L’incisione di matrici di legno per ricavare stampe di immagini sacre e di libretti di poche pagine era da tempo conosciuta in Europa. La matrice in legno con il Cristo portacroce testimonia la tecnica della xilografia: fin dalla fine del Trecento, il torchio era stato usato in Germania e poco dopo anche a Venezia, per imprimere immagini e testi su fogli volanti da matrici di legno intagliato. Quella qui esposta, datata 1520, è ricavata da un dipinto di Tiziano di pochi anni precedente (1508 circa), ritenuto miracoloso e oggetto di particolare devozione. Il tema del viaggio spesso vede protagonisti dei veneziani, come i fratelli Zen, che all’inizio del Quattrocento raggiungevano la Persia o le regioni artiche spingendosi fino alle coste del nuovo mondo, e perciò è particolarmente presente nella produzione a stampa nella città lagunare. A Venezia si stamparono e diffusero anche i resoconti dei viaggi del bolognese Varthema e del fiorentino Amerigo Vespucci che diede al nuovo mondo il suo nome (ma qui è indicato come Albertutio o Alberico). La stampa guidava chi si muoveva nel mondo: ecco allora opere sulla navigazione, come il Portolano qui presente nell’edizione di Alvise da Mosto (1428-1488) o l’Isolario di cui si espone l’opera di Benedetto Bordon, miniatore e autore delle illustrazioni delPolifilo di Manuzio, prontuari di merceologia, tariffe di cambi o pratiche di contabilità commerciale; ma la stampa sapeva raggiungere anche i non viaggiatori con relazioni immaginifiche su mondi lontani, come i viaggi di un fantomatico John Mandeville  o la Legenda aurea di Jacopo da Varazze. Ancora, la stampa divenne veicolo formidabile di diffusione dell’istruzione: apparvero manuali che insegnavano a leggere, scrivere e far di conto, di cui erano autori calligrafi vicini al mondo dell’abbaco, come Giovanni Antonio Tagliente e Girolamo Tagliente, Giovanni Battista Verini e Domenico Manzoni, scrivano e esperto computista che prestava il suo umile servizio in un casotto al mercato di Rialto, accanto alla statua del Gobbo dove la gente si raccoglieva per udire la lettura dei bandi, che per sue edizioni aveva fatto incidere i caratteri mercanteschi, una forma particolare di scrittura gotica corsiva ancora usata dai maestri d’abbaco e dai mercanti, unico caso nella storia del libro. Un caso a parte rappresentano le opere del frate francescano Luca Pacioli (1445 – 1517), concittadino e amico di Piero della Francesca, in contatto con Leon Battista Albertti e Leonardo da Vinci, che collaborò con lui a Venezia al disegno geometrico delle lettere delDivina Proportione.

Sala 8. Tipologie del libro, forme dell’arte. La formazione scolastica regolare cominciava con lo studio della grammatica latina, che apriva la porta del sapere e Ianua era il nome dato al testo elementare di Elio Donato, spesso edito nei rifacimenti quattrocenteschi di Antonio Mancinelli (1452-1505) o Niccolò Perotti (1429-1480). Il Donato, che fu stampato con matrici xilografiche anche prima dell’invenzione di Gutenberg, era scritto in latino, lingua non ancora conosciuta dagli scolari, che dovevano affrontarne lo studio insieme con l’alfabeto e la lettura, al prezzo di enormi difficoltà e frequenti punizioni. Seguivano le brevi frasi dei Disticha Cathonis e testi più complessi, fino alla Retorica cioè l’arte di parlare in pubblico e di scrivere correttamente, di umanisti italiani contemporanei, come l’aretino Giovanni Tortelli (1440-1466), il senese Agostino Dati e il prete veneziano Francesco Negro(1450 ca.- 1510). E’ merito di uno studioso di diritto e medicina, Hartmann Schedel (1440-1514), aver promosso un’opera monumentale che racchiudeva la cronaca del mondo a partire dalla creazione, ilLiber Chronicarum, edita a Norimberga nel 1493, con un fantasmagorico susseguirsi di figure in ogni pagina, per un totale di 1809 illustrazioni ricavate da 645 matrici, fra le quali scene bibliche, vedute di città, ritratti di Papi e re, eventi diversi, fino al Giudizio Universale. Ma ciò che più colpiva era forse la galleria di mostri che secondo la cultura medievale e greca abitavano le aree marginali del mondo: sciapodi,con un solo piede enorme, blemmi, senza testa e con gli occhi sul petto, ponci, con zoccoli equini e gli organi sessuali sul petto, pigmei, piccoli e perennemente in guerra con le gru, ipanoti, con enormi orecchie che si avvolgono intorno al corpo come un mantello, i cinocefali, dalla testa di cane. A quest’opera collaborò probabilmente Albrecht Dürer, poi rivelatosi artista autonomo di straordinaria qualità in un libro xilografico interamente concepito e prodotto da lui: l’Apocalisse in folio che componeva quindici tavole di fiammeggiante visionarietà, firmate col suo monogramma e accompagnate dal testo biblico stampato sul verso. Vaste e molteplici le relazioni e le reciproche influenze tra Dürer e artisti come Tiziano o Mantegna e quel Jacopo de Barbari che incise, su commissione di un mercante tedesco, la celeberrima veduta di Venezia del 1500. Segue l’esposizione di volumi in folio con il testo di opere classiche e di alcune delle edizioni religiose, fra i generi più diffusi: un opuscolo di propaganda dei miracoli della Scuola o Confraternita di San Giovanni Evangelista, sopravvissuto in copia unica e alcune operette in volgare, come la vita di San Francesco e altri racconti biografici chiamati Fioretti dedicati a Gesù e a Maria, opere ricche di illustrazioni dal forte impatto emotivo e lette da molti prima di essere proibite dalla Controriforma. A questi testi si può accostare la Predica sull’Arte del ben morire, che fa parte di una vasta serie di edizioni di prediche del frate domenicano Girolamo Savonarola, severo fustigatore della corruzione della Chiesa e condannato al rogo nel 1498, fedelmente e velocemente trascritte dal notaio Lorenzo Vivoli. Nel campo della cultura profana spiccano le edizioni scientifiche di Erhard Ratdolt (1443 ca.-1528 ca.) originario di Augusta e attivo a Venezia dal 1476 al 1486, dove risolse il problema di stampare i disegni geometrici e sperimentò la stampa di figure a colori, come lo splendido Igino che ripropone un’idea dell’astronomia ancora indistinta dalla astrologia o testi curiosi come il trattato sugli automi di Erone Alessandrino che recupera un sapere tecnico antico. A parte va considerata la prima grande opera di medicina del tedesco Johannes de Ketham impreziosita da grandi figure in cui convivono tradizione (il corpo umano sotto l’influsso dei segni zodiacali che sovrintendono ai diversi organi) e modernità (l’esame delle urine, lalectio di anatomia con dissezione di cadaveri, eccezionalmente praticata a Venezia) .

Sala 9. Medaglie ritratti libri. Un caso singolare: i Numismata virorum illustrium ex Barbadica gente. Di grande importanza è il rapporto tra la collezione di monete antiche e medaglie di Teodoro Correr e la sua biblioteca, che ha origine proprio dalla necessità di reperire su di esse informazioni storiche e documenti. Ma il legame tra libri e numismatica nella celebrazione della storia familiare del patriziato veneziano è ben esemplificato dal caso singolare del volume Numismata virorum illustrium ex Barbadica gente. Protagonista di tale impresa fu il veneziano Giovanni Francesco Barbarigo di Santa Maria del Giglio (1658-1730). Nato da una delle famiglie più antiche della città, intraprese un’importante carriera ecclesiastica, diventando prima vescovo poi cardinale. Fin dalla giovinezza si dedicò alla formazione di una raccolta di medaglie, che fece realizzare da Giovanni Francesco Neidinger (attivo a Venezia fra il 1685 e il 1714 ca.), per illustrare le gesta e le virtù degli avi, decidendo, già nel 1697, di riprodurre a stampa l’intera collezione. Collaborarono all’impresa prima l’incisore Domenico Rossetti (Venezia 1651-Verona 1736) poi, almeno dal 1709, Robert van Auden Aerd (Gand 1663-1743), che alla fine approntò tutti i rami necessari per l’intero apparato illustrativo. Il lavoro poté dirsi concluso solo nel 1731, il volume fu stampato nel 1732 a Padova e fu completato nel ’60 con un ulteriore fascicolo. In apertura di ogni capitolo è riprodotta in incisione una medaglia che presenta sul diritto l’effige in profilo del personaggio illustrato e sul rovescio una scena relativa alle vicende che lo riguardano, oppure un’allegoria riferita alle virtù e ai meriti dello stesso. Le medaglie sono incastonate in un’elaborata cornice definita dalla presenza di personificazioni simboliche correlate alla celebrazione del personaggio raffigurato. Il testo che ne descrive le gesta s’apre con un capolettera figurato e termina con una clausola o finalino dove è delineata un’immagine emblematica. Il Museo Correr possiede diversi esemplari del Numismata, oltre a molte delle matrici in rame per le illustrazioni, per i capilettera e quasi tutte le medaglie, in alcuni casi con la relativa matrice. Questa sezione della mostra espone, oltre al volume intero corredato dal ritratto del committente, una selezione delle pagine sfascicolate, ognuna con le matrici e le medaglie di riferimento. Ecco allora la consacrazione della chiesa di Santa Maria Zobenigo (del Giglio), fondata nel X secolo per iniziativa di diverse famiglie tra le quali anche i Barbarigo, con la medaglia accompagnata dalle personificazioni della Religione, del Vecchio e del Nuovo Testamento e il capolettera figurato con la scena dell’Annunciazione; segue la figura di Angelo Barbarigo (1350 ca.- 1418), cardinale al Concilio di Costanza per ricomporre lo Scisma, personificato, insieme alla Chiesa, nell’illustrazione della medaglia, mentre il capolettera ritrae un altare con la croce; seguono altre celebrazioni di gloriosi membri della famiglia, fino ai dogi Marco e Agostino eletti uno di seguito all’altro nel 1485 e nel 1486. Del primo, l’illustrazione raffigura la personificazione dell’Architettura a ricordo dei lavori edili a Palazzo Ducale, del secondo la medaglia ricorda l’incontro con la regina di Cipro Caterina Cornaro che rinuncia al suo regno in favore della Serenissima, mentre l’illustrazione personifica la Gratitudine e nel capolettera è il Bucintoro, galea veneziana da cerimonia. Giovanni Francesco Barbarigo, autore e ideatore del volume, è ricordato per le sue cariche Vescovo e di Senatore, mentre il capolettera riporta lo stemma della Regina di Polonia, da lui incontrata.

Sala 10. Favole antiche e piaceri della vita. Per tutto il Medioevo le Metamorfosi di Ovidio, il capolavoro latino che raccontava in poesia i miti dell’antichità, aveva creato un conflitto fra lettori e autorità ecclesiastiche, per le quali, secondo la fede cristiana, l’unica metamorfosi ammissibile era l’incarnazione di Dio che si fa uomo per la salvezza di tutti. Avvenne così la metamorfosi dell’autore inOvidius moralizatus con il testo di ogni mito accompagnato da un’interpretazione allegorica che ne rendeva compatibile il senso con la dottrina teologica. Oltre a due edizioni in volgare, è qui esposta l’edizione latina di Giorgio de Rusconi del 1517 in cui il rapimento di Europa – qui visibile nella successione di diverse scene – trasportata a Creta da Giove innamorato e trasformato in toro, verrà elevato dai commentarii a rappresentare l’anima riscattata da Cristo/Toro vittima sacrificale e salvifica, che la porta con sé in cielo. Ma la serie di 53 splendide xilografie colpì, in quest’opera, fin dalla prima edizione del 1497 per realismo ed efficacia espressiva e la riproduzione “all’antica”di armi, vesti e corpi, la cui nudità aveva allarmato il Patriarca di Venezia, obbligando stampatore ed editore a intervenire con correzioni sulla pagina e poi direttamente sulla matrice lignea. Il corpus iconografico dell’Ovidio del 1497, venduto in 1800 esemplari in 4 mesi, e poi diffuso in molte edizioni e traduzioni per tutto il Cinquecento, diede impulso alla immaginazione delle più fervide menti artistiche a cominciare da Tiziano. Ma ancora prima della grande pittura veneziana del Cinquecento, gli incunaboli veneziani avevano fatto fiorire la mirabile stagione dell’ “istoriato”, il vaso da tavola, o il piatto in maiolica decorato con scene mitologiche e storiche che rappresentano una delle espressioni più alte del Rinascimento italiano. Il servizio di 17 pezzi che viene parzialmente esposto qui è opera, secondo l’attribuzione prevalente, di Nicolò da Urbino, detto Pellipario (1480-1537/8), le cui opere sono presenti nelle collezioni dei grandi Musei del mondo, che avrebbe dipinto questa serie di piatti a Casteldurante, l’odierna Urbania, in età giovanile. Fra le possibili corrispondenze fra fonte iconografica libraria e decorazione della maiolica “istoriata” si segnala l’amorino con arco e freccia del piatto con la vergine che ammansisce l’unicorno, che presenta lo stesso atteggiamento di quello ammonito da Apollo sullo sfondo, fra le due scene in primo piano in cui lo stesso dio uccide il Pitone e insegue Dafne che si sta trasformando in alloro. Ugualmente pare evidente la dipendenza dell’idolo adorato da Salomone nel piatto scodellato rispetto alla scena della morte di Achille colpito al tallone dalla saetta di Paride, mentre è inginocchiato in preghiera di fronte al dio suo nemico che si erge sopra un insolito piedistallo simile a una vera da pozzo veneziana. In questi piatti da tavola, le antiche “favole” facevano apparizione sul fondo, a mano a mano che si consumavano i cibi. Per questo ad essi è accostato il trattato De onesta voluptate et valetudine del cortigiano Bartolomeo Sacchi (1421-1481), detto il Platina dal nome della città natale, Piadena vicino a Cremona: il testo dell’incunabolo – con il frontespizio impreziosito da miniature nello stile floreale diffusosi a partire dalla bottega di Leonardo Bellini – in questa edizione tradotta in volgareè preceduto da una “Tavola di le vivande, fructi, sapori et magnari di diversi paesi” per comodità di chi si cimentasse con la preparazione dei cibi e tramanda le ricette della buona cucina delle corti e delle case patrizie, con il linguaggio parlato da tutti a Venezia (che usa termini come asparesi, bruscandoli, torta di ceriese, gambari, barboni, sardelle, bozoladi peverati).

Sala 12. Tra ragione e mito. Nel Settecento il libro illustrato, dominato da due stili divergenti, Rococò e Neoclassico, è sicuramente una manifestazione non secondaria della grande arte veneziana . Dopo un avvio tipograficamente ancora modesto, il secolo vede il trionfo di un’editoria di prestigio che, accanto alla filologia e ai valori “filosofici” dei testi, persegue un ideale di gusto ed eleganza nella forma del libro ben stampato, illustrato e rilegato, recuperando le tendenze classicheggianti del Cinquecento e opponendo alla pesante gravità del frontespizio Barocco l’eleganza dell’allegoria nell’antiporta e la leggerezza delle scene incise su rame. Ai grandi formati del Seicento, spesso legati alla necessità della raffigurazione scenografica o della compilazione erudita, seguono formati ridotti e maneggevoli che convivono con volumi di grandi misure. I testi sono sempre più spesso un pretesto all’esplosione di figure, fregi decorativi, vezzi vegetali o fleurons, testatine e finalini di ambientazione spesso bucolica che adornano la pagina stampata. Accanto a edizioni di carattere letterario e scientifico prodotte da numerose Accademie e Società scientifiche sostenute dal mecenatismo di un patriziato ricco e illuminato, continua la moda delle pubblicazioni encomiastiche, d’occasione e di celebrazione. Dei molti tipografi attivi in città nel Settecento, Giambattista Albrizzi (1698-1777), Giambattista Pasquali (1702-1784) e Antonio Zatta (1722-1804) produssero opere lussuosamente illustrate, collaborando con gli artisti che negli stessi anni lavoravano agli affreschi dei più illustri palazzi veneziani e delle case di villeggiatura della nobiltà cittadina. Numerosi incisori veneziani, come Marco Alvise Pitteri (1702-1786), traducevano in incisioni, con le tecniche più aggiornate per rendere le sfumature e il chiaroscuro, i disegni di Gaspare Diziani (1682-1767), Giambattista Tiepolo (1696-1770), Francesco Fontebasso (1709-1769), Francesco Guardi (1712-1793). A Giovanbattista Piazzetta (1683-1754), si deve l’apparato illustrativo del massimo capolavoro di Albrizzi, La Gerusalemme liberata del Tasso pubblicata nel 1745, con il ritratto di Maria Teresa d’Austria alla quale l’opera è dedicata. Composta da 26 tavole a piena pagina che precedono i canti, con venti testatine e ventuno finalini incisi in rame con scene pastorali e agresti. Nella scena finale è riconoscibile lo stesso Piazzetta, autoritrattosi insieme all’editore. Nel 1764 ancora Albrizzi stampa una delle più belle raccolte encomiastiche, i Componimenti poetici per l’ingresso del procuratore di S. Marco per Merito di sua Eccellenza Lodovico Manin con antiporta, frontespizio, ritratto, 17 vignette, testatine, finalini, e 38 fastose cornici in rame che racchiudono il testo, in parte incise da Francesco Bartolozzi (1728-1815). La Gerusalemme di Albrizzi ispirò altre splendide edizioni che rendevano onore ai grandi della letteratura italiana, come la Divina Commedia dello stesso Albrizzi,nel 1757, e le Rimedi Petrarca, edite l’anno prima da Antonio Zatta che chiamò vari artisti a disegnare e incidere il sontuoso apparato illustrativo di oltre 120 immagini. Dall’officina del Pasquali escono dal 1761 al 1777 i 17 volumi Delle Commedie di Carlo Goldoni, le cui incisioni offrono una mirabile documentazione iconografica della vita del tempo: per questa edizione Pietro Antonio Novelli (1729-1804) disegnò le antiporte, le vignette dei frontespizi e una tavola all’inizio di ogni commedia, incise in rame da Giuliano Giampiccoli (1703-1759) e Antonio Baratti (1724-1787), mentre il ritratto di Goldoni è inciso da Pitteri su disegno di Lorenzo Tiepolo (1736-1786). Ancora Baratti e Bartolozzi incidono su disegni dello stesso Bartolozzi e di Novelli le illustrazioni per le Quattro elegantissime egloghe rusticali pubblicate da Paolo Colombani nel 1760.

Sala 14. Dalle alte tirature alla comunicazione di massa. Le grandi imprese editoriali del Settecento erano state possibili per l’adozione di forme di smercio come l’“associazione”, o “sottoscrizione”, con la quale un numero di lettori sufficiente a coprire i costi si impegnava in anticipo ad acquistare l’intera opera assicurando un rapido rientro dall’esposizione finanziaria e un guadagno. Nella prima metà dell’Ottocento il commercio librario aveva spinto la produzione verso un pubblico più ampio in possesso di un livello minimo di istruzione e attratto da pubblicazionipoco costose e di facile lettura. Alcuni editori innovativi puntarono decisamente sull’abbassamento dei prezzi e l’aumento delle tirature, come accadde con il Teatro universale edito da Giuseppe Pomba, torinese, possessore di un “torchio meccanico” mosso dall’energia del vapore, acquistato in Inghilterra nel 1830. Il periodico, che usciva a fascicoli settimanali di otto pagine, al prezzo di soli 10 centesimi, voleva imitare analoghe pubblicazioni europee. Il titolo (come per altri magazine, o “Il Caffè”, già apparsi nel secolo precedente) faceva riferimento ai nuovi luoghi di ritrovo e di scambio, dove si stava formando una nuova opinione pubblica e una coscienza nazionale, e aveva l’obiettivo di “recare la scienza all’uscio del popolo”. Periodici simili erano nati in altre città: a Milano, ad esempio, Il cosmorama pittorico. Un importante passo in avanti si ebbe a Venezia dove si distingue l’ Emporio artistico – letterario, ossia Raccolta di amene lettere, novità, aneddoti e cognizioni utili in generale, edito da Giuseppe Antonelli (1793-1861). I fascicoli potevano essere rilegati in un volume annuale e si presentavano “con disegni intercalati al testo” per rendere più agevole e piacevole la lettura, grazie a un nuovo procedimento detto “trasporto litografico” che per riprodurre le figure non partiva più dalla xilografia. Il metodo (premiato nel 1838 con una medaglia d’oro) consentiva la traduzione di qualsiasi disegno in una nuova matrice litografica dal tratto leggero e molto espressivo, riproducibile senza limiti di copie. E sorprendente è la mole nel campo dell’istruzione popolare di opere ideate, pubblicate e vendute dal Privilegiato Stabilimento Antonelli, industria di dimensioni europee, che crebbe accorpando tutte le fasi della produzione nella sede del palazzo seicentesco alla Misericordia, con quasi 300 dipendenti (fra cui donne, anziani e bambini), sostenuto da un’ eccellente rete commerciale di librerie e agenti nelle principali città della penisola e all’estero. Come i prototipografi del Quattrocento, Antonelli produceva, nel reparto Fonderia, le serie dei caratteri che rinnovava frequentemente per ottenere testi perfettamente nitidi. Per abbassare i prezzi, dipendenti per gran parte dal costo della carta, ideò collane di piccolissimo formato come il Parnaso classico italiano, di cui uscirono 188 volumi, non indegni eredi dei “libelli portatiles” di Manuzio. Un altro editore veneziano che, nella seconda metà del secolo e nei primi anni del Novecento, lasciò profonda traccia è Ferdinando Ongania (1842-1911) il cui nome è legato soprattutto alla monumentale Basilica di san Marco, edita a dispense dal 1877-1888. Come già Antonelli aveva guardato a Manuzio, Ongania si sentiva il continuatore della grande stagione del libro a stampa veneziano delle origini, che fece conoscere con riproduzioni in facsimile di straordinaria qualità, spesso da esemplari di proprietà privata ora perduti, come la serie dei modelli di merletti.