Sala 1. Una prima installazione si compone di memorie, documenti, reperti, immagini che accompagnano il percorso di ricerca della maschera neutra a partire dai primi eventi scenici legati al teatro Vieux Colombier (1914) di Parigi diretto da Jacques Copeau e Charles Dullin. Il percorso storico prosegue tra le due guerre sino all’incontro, presso il Teatro dell’Università di Padova (1947-48), del mimo francese Jacques Lecoq con lo scultore Amleto Sartori. Da questo incontro nasce la maschera neutra, “madre di tutte le maschere”, usata ora nelle più rappresentative scuole di teatro del mondo e base della ricerca di tutte le maschere realizzate sino ad oggi da Amleto e Donato Sartori e dal Centro Maschere e Strutture Gestuali. Una grande installazione denominata “La foresta delle maschere” espone le “maschere-casco” prodotte nell’arco degli ultimi 80 anni da Amleto e Donato Sartori, dalla realizzazione di 75 maschere per la trilogia di Eschilo, “Orestea”, di Jean-Louis Barrault – portata in scena al Festival Internazionale di Bordeaux (1955) e successivamente al Teatro Marigny di Parigi – a quelle realizzate dal figlio Donato per la medesima tragedia di Eschilo con la regia di Peter Okskarson al Folkteatern di Gävle in Svezia (2002). La sala contiene infine esempi degli studi di fisiognomica, condotti da Sartori sulla scorta del trattato del 1586 di G.B. Della Porta, in cui il riferimento per decifrare l’essenza dell’uomo rimane l’esame delle forme degli animali e dei caratteri loro attribuiti. Lo zoomorfismo diventa infatti un principio fondamentale per indagare tra aspetto fisico e carattere e ciò viene esemplificato graficamente e plasticamente dall’artista.
Sala 2. In questo settore si affronta il tema delle maschere medioevali utilizzate dal Teatro Popolare e nel folclore di matrice pagana. Intitolato “Il viaggio sciamanico” (volo attraverso le barriere che separano le dimensioni tra la vita e la morte), il percorso di questa sala presenta una serie di eventi teatrali riferiti alla figura di Hellequin, Herlakin, Alichino, personaggio diabolico presente nelle credenze popolari nordiche medioevali. Dalla metà dei primo millennio, infatti, cronache, ballate, documenti testimoniano la credenza su questo mitico essere inferico, che conduce le anime dei morti non nell’altra dimensione, sede definitiva dopo il ponte di Hellebrun o il “pons subtilis” o il fiume dantesco attraversato dal demonico Caronte con il suo lugubre carico, ma nella dimensione terrena; anime quindi visibili, palpabili (revenants). Miti, saghe e leggende su questi temi hanno popolato per secoli la fantasia e la storia folclorica di intere popolazioni, ponendo un ragionevole dubbio sulle origini italiane della nostra più rappresentativa maschera del teatro dell’arte: l’Arlecchino dalle mille facce. Dall’iconografia si può ricavare una connessione tra Arlecchino e il Pantheon Celtico. È proprio questo il tema che da alcuni anni (1996-2003) occupa Donato Sartori, alla ricerca delle radici della maschera di Arlecchino con la collaborazione del Folkteatern di Gävle in Svezia e del suo direttore-regista Peter Oskarson. In questa sala sono inoltre esposte figure del teatro delle ombre, disegni e opere di varia natura e tecnica.
Sala 3. Questa parte espositiva testimonia l’amore di Amleto Sartori per il teatro veneto di Angelo Beolco in arte Ruzante e delle opere che ad esso si ispirarono. Un amore che risale ancor prima degli anni ’50, all’incontro di Sartori con gli esponenti del teatro dell’Università di Padova – il regista Gianfranco De Bosio, lo storico Ludovico Zorzi, Giovanni Calendoli, direttore della facoltà di Teatro dell’Università di Padova. E’ in questo periodo che la fama delle sue maschere raggiunge consensi non solo in Italia, ma soprattutto nell’Europa del pieno risveglio culturale postbellico: Jean-Louis Barrault volle sperimentare le maschere in cuoio di Amleto Sartori prima nella commedia dell’arte per una rappresentazione al Teatro Marigny di Parigi (1951), poi per i personaggi della “Vaccaria” del Ruzante, riscuotendo un grande successo a Parigi, infine per l’“Orestea”. In seguito molti dei più rappresentativi teatri europei si rivolsero a Sartori, come il Teatro Ensemble di Essen in Germania per “Des Ruzante Rede, so er vom Schlachtfeld kommen” (Parlamento de Ruzante che iera vegnù dal campo), prima regia dell’allievo di Brecht Peter Palitzsch (1960-61). Il percorso continua con maschere, studi, bozzetti, disegni realizzati dai Sartori per la Commedia dell’Arte dagli anni del secondo dopoguerra ad oggi.
Sala 4. Nel terzo centenario della nascita di Goldoni non poteva mancare uno spazio dedicato all’arte della maschera nel teatro del grande veneziano e alla continua evoluzione e revisione del suo spettacolo più celebre “Arlecchino servitore di due padroni”, interpretato da oltre quarant’anni da Ferruccio Soleri per la regia di Strehler e con la maschera realizzata da Donato Sartori. Questa sala è così interamente dedicata allo straordinario momento storico della Commedia dell’Arte: documenti, immagini, disegni, maschere, lo storico costume di Arlecchino, bozzetti, gessi e disegni corredati da documentazione fotografica e video dei due scultori padovani. L’esposizione ripercorre le varie tappe della vita artistica dei Sartori con il Piccolo Teatro di Milano di Giorgio Strehler e Paolo Grassi, iniziata nel 1951 con “L’amante militare” di Carlo Goldoni, interpretato da Marcello Moretti che recitò qui per la prima volta con la maschera in cartapesta realizzata per lui da Amleto Sartori, abbandonando la usuale maschera dipinta sul volto. Il sodalizio continuò e le maschere di cartapesta furono sostituite con quelle in cuoio che hanno reso i Sartori famosi in tutto il mondo. Ricorda lo stesso Strehler ”Per l’Arlecchino servitore di due padroni”, Moretti scelse la maschera di “tipo gatto”. E da allora si recita per sempre con quella maschera e noi tutti incominciammo un lungo lavoro per riscoprire la maschera e l’avventura della Commedia dell’Arte. Ma prima fu Amleto a “riscoprire” la tecnica del “fare maschere” anch’essa scomparsa nei suoi termini poetici ed artistici. Per fare queste prime maschere Sartori compì un lavoro faticoso, a ritroso nel tempo, senza precedenti, senza maestri, per tentativi”. Alla prematura scomparsa del padre a soli 46 anni il figlio Donato ereditò il patrimonio culturale, artistico e tecnico perfezionandolo, ampliandolo e adattandolo alla necessità delle istanze contemporanee. Il sodalizio con Strehler continuò anche successivamente con la creazione di maschere per le opere di Brecht, Goldoni e Pirandello. Il percorso nella sala si completa con l’esposizione di alcune maschere della commedia che hanno avuto qualche attinenza con il Piccolo Teatro (come il “Pulcinella” di Eduardo de Filippo) o semplicemente che ne abbiano subito l’influenza. Il Piccolo Teatro di Milano ha prestato lo storico costume di Ferruccio Soleri, mentre dalla Casa Goldoni di Venezia provengono il costume di Marcello Moretti e le due maschere qui esposte.
Sala 5. La sala raccoglie “strutture gestuali”, o “maschere totali”, realizzate da Donato Sartori negli anni attraverso molteplici esperienze in seminari-laboratorio tenuti in tutto il mondo: dal Venezuela a Città del Messico a Cuba, da Copenaghen a Bruxelles a Parigi. Le prime idee di questo nuovo tipo di scultura nascono durante il seminario-laboratorio che Donato Sartori conduce per la Biennale di Venezia nel 1976 a Mirano con la collaborazione di studenti e operai delle inquinatissime fabbriche del luogo. L’espressività di corpi dilaniati, appesi e coperti da mascherature professionali o maschere civili e protettive (come le maschere antigas), diventa, coadiuvata dal gesto e dall’azione, il linguaggio visivo di una comunicazione di carattere sociale. Le sculture hanno perso ogni senso meramente estetico per assumerne un altro creativo-comunicativo.
Sala 6. In questa sala oscurata sono esibite opere attinenti alla più recente ricerca e ai progetti di Donato Sartori e del Centro Maschere e Strutture Gestuali sul tema del “mascheramento urbano”, una sorta di modificazione effimera delle aree cittadine – piazze, strade, edifici, monumenti pubblici, chiese – realizzata attraverso una installazione di fibre policrome che alterano completamente l’usuale prospettiva. Ritroviamo qui due concetti antichissimi – ritualità e festa – che permeano da sempre la storia della creatività dell’uomo nella società. Iniziazione, riti propiziatori e della fertilità, nascita e morte, sono alcune delle occasioni scandite da quella ritualità tribale da cui sono scaturite molte delle espressioni creative nelle diverse civiltà umane. Forme e colori, trance e partecipazione costituiscono la miscela che fa esplodere l’energia creativa umana convogliandola in una sorta di ebbrezza collettiva, di gioia e di festa. E feste sono tutte quelle occasioni più o meno spontanee che manifestano una volontà di comunicazione attraverso la liberazione dei sensi e la trasgressione del quotidiano. Lo stimolo a partecipare, ad “aggregarsi”, benché oggi si sia modificato, perdendo la sua motivazione religiosa o propiziatoria, continua comunque ad esistere, è insito nella natura umana e profondamente radicato nella collettività. Così l’arredo urbano predisposto da Donato Sartori con i suoi “mascheramenti” invita il pubblico all’azione ludica, a una sorta di grande gioco partecipativo. Gesto, immagine e suono sono gli elementi che ripropongono un uso nuovo dello spazio urbano ad un pubblico spettatore che diventa attore in un’azione collettiva, di un nuovo rito tribale. Venezia, 1980, Piazza San Marco: è il primo e più eclatante esempio di mascheramento urbano, complice la Biennale di Venezia con il Carnevale del Teatro diretto da Maurizio Scaparro. E a seguire, fra le tante città del mondo: Napoli, Maschio Angioino (1980); Firenze, Piazza della Signoria (1981); Nancy, Place Stanislas (1982); Copenaghen, Piazza del Municipio (1984); Rio de Janeiro, 1995; e la recente installazione ad Oporto in Portogallo. Da qui nasce la retrospettiva di filmati che parte proprio con Venezia e prosegue con le visioni più rappresentative ed emblematiche delle città successivamente coinvolte: una installazione di monitor che testimonia, inoltre, attaverso filmati, videoclip, immagini, l’evoluzione della maschera nel teatro contemporaneo e nell’arte visiva, nonchè il lungo e appassionato lavoro dei Sartori e del Centro Maschere e Strutture Gestuali.
Questa esposizione è stata ideata e curata da Donato Sartori, Paola Piizzi e Paolo Trombetta; tutte le opere esposte fanno parte della prestigiosa Collezione Sartori che costituisce anche il Museo Internazionale della Maschera Amleto e Donato Sartori di Abano Terme – inaugurato lo scorso anno dal Premio Nobel Dario Fo e da Franca Rame che per l’occasione hanno realizzato lo spettacolo “Maschere Pupazzi e Uomini dipinti” di cui alcuni brani sono proiettati in questa sede.